"Intrigo sull’Adriatico" di Ylli Polivina

“Intrigo sull’Adriatico” di Ylli Polivina

Intrigo sull’Adriatico (Besa, 2012), di Ylli Polivina, è un romanzo d’investigazione intrigante e raffinato.

Sin dal primo accostamento al testo, una strana, soffusa atmosfera sembra prendere forma dalle pagine ordinate e sapienti del romanzo. Un’atmosfera di grande verosimiglianza, ottenuta col doppio registro compositivo tipico del suo autore: da una parte, il realismo accelerato e quasi “diaristico”, tipico di un approccio giornalistico; dall’altra la frammentazione continua e ben equilibrata dei capitoli, che consentono al lettore un avveduto ripassare i momenti di una lettura per diretta conseguenza estremamente incalzante, concitata.

Il dedalo infinito dei molti sottocapitoli, costruisce uno scenario onirico e surreale ma sempre assai credibile, seppure quasi bontemplliano: in cui lo sviluppo della trama, in cui convergono dati di verità e dati di verosimiglianza, il protagonista, ex viceministro albanese ora nelle carceri italiane per un contrabbando di sigarette, pare un novello Signor K, richiamando la condizione labirintica del Castello di Kafka. La figura del protagonista, superstite consapevole di un sistema di potere ormai a pezzi e in caduta libera, sopravvive con lucidità alle pastoie di una giustizia insolitamente rapida  ma pur sempre labirintica, che sembra affiorare da una sorta di tradimento del patto tra poteri sorto negli accordi più o meno detti a cavallo tra le due sponde dell’Adriatico; e che, come in una sorta di prigionia politica, ricompone la memoria della propria mutazione tenendosi pronto ad effettuare una resistenza, tutta psicologica, cui la sua intera vita di partito lo aveva addestrato nel momento stesso della sua aderenza al regime comunista e a quello, fintamente libero, che a questo era succeduto nell’Albania in pezzi che, come corsari, i vari papaveri precedenti andavano depredando in scorrerie legalizzate incuranti di norme e diritti.

L’Albania appare, nella memoria indiretta del protagonista, una sorta di luogo dell’abuso: non una patria amata e perduta; un luogo in cui il pericolo, tangibile, come un’ombra biblica aleggia sulla testa delle famiglie incolpevoli; in cui scegliere la propria posizione rispetto al potere è evocazione di un mercimonio della coscienza quasi inevitabile: ma che , nella maledizione della perdita della propria dignità di uomo che scientemente sceglie la giustizia in nome di un utile che spesso era significato sola, momentanea sopravvivenza e riparo, si tramuta in una gorgone, in una medusa che pietrifica estendendo il proprio valore di morte nei luoghi altri in cui i suoi stessi uomini, spostandosi, estendono il territorio di una patria dell’anima perduta.

Questo romanzo politico, seppur non ideologico, che prende le mosse da accadimenti reali ma che sull’impalcatura della realtà costruisce una storia che ambisce anche all’invenzione, è costellato di nomi, luoghi, riferimenti giornalistici, atmosfere spaventosamente vicine, in cui il male di un secolo di disvalore del totalitarismo e di annientamento della dignità del diritto si trasformano in uno sfondo amplio e profondo, sul quale si muove, come una proiezione, la retrofigura di una umanità sommersa e parallela alla vita ufficiale, canonica dell’Occidente, qui rappresentato dall’Italia, che vive ignara una diversità dalla lordura dell’abuso totalitario più dichiarata che realmente agita.

In realtà, come dimostra lo spunto narrativo che prende avvio da una vicenda reale, i legami tra la dittatura di Hoxa e i governi immediatamente successivi che gli si sono approssimati, democratici sulla carta ma ancora con quello imparentati grandemente, ci raccontano molte cose circa l’etica  del diritto non condivisa su entrambe le sponde della lingua adriatica. Ylli Polovina dispiega con grande chiarezza e credibilità le sue capacità giornalistiche maturate nei molti anni di attività giornalistica in patria; oltre che una grande, acuta scaltrezza politica derivantegli dai numerosi  e prestigiosi incarichi assolti come diplomatico fuori dall’Albania, specie nel nostro Paese.

L’invenzione della trama ricca di colpi di scena, in cui l’accusato è anche controllore delle dinamiche d’accusa di chi lo ha fermato all’aeroporto bolognese in conseguenza di una denuncia giornalistica, e la felice trovata di complicare l’intrigo accostando all’ufficialità dei ruoli diplomatici quella di spionaggio da parte di schegge impazzite di una Repubblica delle Aquile ormai in frantumi, riesce a rendere questo libro un romanzo psicologico oltre che d’investigazione  di altissima godibilità sia per il lettore interessato al solo avvincimento della trama, che per quello interessato al sottinteso sociale che questa bella prova di narrazione sottende.

La velocità, impressa alla narrazione non -come sarebbe canonico- dai continui cambi di scena o di azione, ma dalla raffinata consecuzione di schegge narrative definite in capitoli brevissimi, anche se sempre conclusi nello svolgersi delle poche pagine, ci dice di una tecnica narrativa sorprendente e piacevolmente insolita, capace di accattivare e stupire anche il più esigente lettore.