La tragedia della vita secondo Arthur Miller

La tragedia della vita secondo Arthur Miller

Il fallimento del sogno americano: un viaggio nell’animo di Arthur Miller.

Arthur Miller nasce a New York nel 1915.

Dopo i primi insuccessi teatrali si dedica alla stesura di tragedie: genere da lui ritenuto espressione massima dell’esperienza umana.

Le sue tragi-commedie – tra le quali si ricordano soprattutto Morte di un commesso viaggiatore e Uno sguardo dal ponte – risentono molto dell’influenza di Ibsen.

Uno dei suoi lavori teatrali The misfits viene riadattato e diventa un film: Gli spostati (1961) la cui protagonista femminile è proprio la moglie di Miller, la famosa e sfortunata attrice Marylin  Monroe.

L’autore è convinto che la tragedia possa offrire al pubblico molti elementi interessanti: forti emozioni legate alle esperienze di ogni giorno, spunti di riflessione e anche qualche spiegazione originale sulle vicende di vita quotidiana.

I suoi lavori migliori sono indubbiamente le tragedie moderne: quelle in cui Miller propone situazioni non distanti da quelle che ci si presentano abitualmente, riuscendo così a toccare le corde del nostro inconscio.

Le tragedie dell’autore guardano alla società, alla famiglia, all’individuo e alla complessità della psiche.

I suoi personaggi sono schiacciati dall’ineluttabilità della vita e, per questo, sono portati ad un inevitabile declino il cui fascino drammatico è sempre di forte impatto.

Le opere di Miller non si avvalgono di toni misteriosi o ermetici, anzi: le sue storie sono sempre molto trasparenti e rivelano una particolare attenzione nei confronti della fatalità del quotidiano.

Delusioni e inganni sono protagonisti indiscussi della realtà-finzione proposta dall’autore, tanto che nell’epilogo si mostrano rivelatori della malattia dell’anima. Dalle sue opere sembra traspare l’idea che la verità sia difficile da accettare e che, nonostante la falsità non sia sempre espressione di malvagità, quasi nessuno sia in grado di vivere nell’onestà.

Questa idea della vita intesa come fuga dalla realtà appare evidente soprattutto nella tragedia più celebre di Miller Morte di un commesso viaggiatore, durante la quale i protagonisti arrivano a mettersi l’uno contro l’altro in un articolato ingranaggio d’inganni e delusioni.

Ed è proprio la delusione, elemento caro all’autore, a diventare la loro unica realtà: così i personaggi milleriani perdono il senso di ciò che è vero e ciò che è falso finché la verità, messa alle strette, è obbligata a uscire allo scoperto rovesciando addosso ai protagonisti un senso di paura tanto forte da sfociare nell’autodistruzione.

Morte di un commesso è anche specchio di quella che, secondo Miller, è la tragicità della vita familiare: Willy, il protagonista, convince i figli Happy e Biff che essi sono diversi dagli altri ragazzi e fin da bambini gli fa credere di essere i migliori in assoluto.

Come ogni genitore Willy non riesce a essere imparziale: è evidente il suo debole per Biff, agli occhi paterni quasi una figura eroica, mentre è più diffidente nei confronti di Happy.

Ma i figli, a loro volta, non hanno una passione per il padre dal momento che Willy conduce una vita sregolata e disonesta – anche nei confronti della moglie, tradita con un’altra donna – .

L’esempio paterno allora, così distante dall’idea di superiorità con la quale Happy e Biff sono cresciuti, porta i ragazzi a confondere ciò che è giusto o sbagliato e, di conseguenza, li inserisce in meccaniche di vita tutt’altro che rette: la loro inettitudine li porta a rubare e a trovarsi in situazioni ben oltre i limiti della legalità. In particolare Happy, il più piccolo dei figli e il preferito di Willy, s’inserisce in un giro di prostituzione.

È Biff alla fine, il figlio più grande, a mettere il padre di fronte alla verità portando lui e il fratello al confronto definitivo che esplode in un acceso diverbio.

Willy, che vede dissolversi poco a poco la patina di falsità in cui era riuscito a crogiolarsi fino ad allora, perde il senno e sceglie la via del suicidio.

In questa scena finale si cela la tragedia della vita quotidiana: la presa di coscienza di Willy, le cui convinzioni irreali sono quelle imposte dalla società moderna, che lo porta alla morte.

Ecco un passo tratto proprio dalla fine, dal dialogo che porta i protagonisti a fare i conti con la verità:

Biff: Se vogliamo dire tutta la verità papà, io non sono mai stato un commesso viaggiatore, ma un impiegato marittimo.
Willy: Di che cosa stai parlando?
Biff: Guardiamo in faccia la realtà, non prendiamoci in giro. Sono un impiegato marittimo.
Willy: Bene ora ascoltami.
Biff: Perché non mi fai finire?
Willy: Non sono interessato a queste storie.
Biff: Come potresti esserlo?
Willy: Il succo di tutto è che nella mia testa non sono rimaste storie del passato, quindi non farmi
sermoni sui fatti e sugli aspetti. Non sono interessato.
Happy (arrabbiato): Lo so.

L’opera di Miller racconta anche il fallimento del sogno americano, oramai limitato all’idea di successo finanziario e alla corsa al consumismo. L’autore racconta dunque di un’America alla deriva, alla ricerca della sua strada e delle sue finte verità.