"Tommaso Maestrelli. L'ultima partita" di Giorgio Serafini Prosperi

“Tommaso Maestrelli. L’ultima partita” di Giorgio Serafini Prosperi

Recensione di “Tommaso Maestrelli. L’ultima partita”, un’opera di Giorgio Serafini Prosperi, Pino Galeotti e Roberto Bastanza. In scena fino al 9 novembre al teatro Parioli Peppino De Filippo di Roma.

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Capita che ti dicono “vai a vedere uno spettacolo”, ti dicosuperae è bello, che è commovente, che va visto. Poi ti dicono che si tratta di un’opera che parla di calcio e storci la bocca perché in Italia non si può parlare di pallone a teatro, ipiùun libro o in un film. Fai lo snob anche se hai letto “Febbre a 90”, amato “Fuga per la vittoria”, o “Best” o tante pellicole americane sullo sport che hanno caratterizzato la tua vita.

Poi però dicono “Tommaso Maestrelli” e ti fermi un secondo. Ripensi alla foto di tua nonno con accanto l’allenatore, anzi l’uomo, che più di tutti l’ha reso felice. Ripensi ai racconti sui ragazzacci del ’74, alle bandiere bianche e celesti cucite a mano, all’inno che lo chiama “maestro” e su cui ogni domenica riversi di nascosto una lacrima.

E allora vai a vederlo e vai a vederlo da solo perché la compagna – romanista e agnostica – declina l’invito, e torni a casa con un magone incredibile e la nostalgia, fortissima, di un tempo non vissuto.

Sì perché la storia che questo spettacolo (“Tommaso Maestrelli. L’ultima partita”, con la regia di un sempre più bravo Giorgio Serafini Prosperi) va a raccontare è una storia che ti appartiene solo di traverso: tu  laziale, vero, ma figlio degli anni Novanta e di successi meno romantici, meno poetici, quegli anni lì li hai ascoltati solo dai racconti.

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Ma è una storia bellissima, umana prima che sportiva, italiana prima che laziale, poetica prima che teatrale. La storia di un grande uomo e di un tempo – gli anni Settanta – in cui tutto si colorava di epico e di vitale. La storia di una squadra di uomini veri anche se imperfetti, capaci di sbagliare, di dare e togliere tutto per furore più che per raziocinio.

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E di quegli uomini, di questi uomini amati anche se non conosciuti di persona, pasoliniani nell’indole e negli aspetti, ne vedi la rappresentazione un giorno d’ottobre che non è come tutti gli altri perché è un anniversario triste – i trentacinque anni dalla folle morte di Vincenzo Paparelli – e perché Nello Mascia, il bravissimo attore che interpreta il Maestro, indossa la giacca che fu di Tommaso Maestrelli e che un po’ mi ricorda quella di mio nonno.

Scena dopo scena gli attori – un dinoccolato Chinaglia interpretato da Massimiliano Vado; un perfetto Carlo Caprioli nei panni di Re Cecconi; una bella e commovente Teresa Federico nel ruolo difficile di Lina, la compianta moglie di Maestrelli; un istrionico Renato Ziaco col compito difficile di interpretare Gino Nardella, medico amico e compagno di mille avventure – diventano marionette della Storia. Anzi del mito: sì perché il pubblico, me compreso, partecipa a un rito che già sa come va a finire. Un rito che ha sapore del requiem e di una chiacchierata tra vecchi amici, di un qualcosa che al tempo stesso appartiene alla storia e la supera.

Questo dramma che ripercorre l’ultima fase della vita di Maestrelli è bello davvero ed è un inno ai valori del calcio – quello sano -, a una Roma e a un’Italia che non esistono più (nel bene e nel male), all’amicizia. Poco importa se è solo una storia di calcio, una storia di Lazio: sarebbe bello, bellissimo, pensarlo solamente come una storia di uomini. E proprio per questo, una storia per tutti.