"Stoner" di John Williams

“Stoner” di John Williams

Cronaca di una vita appassionatamente incompiuta: “Stoner”, di John Williams.

La letteratura, qualche volta, regala delle storie nelle quali la capacità di raccontare e di creare una nitida empatia con il lettore si realizza nonostante l’apparente mediocrità di personaggi e di vicende a cui forse nessuno, tranne pochi, grandi scrittori, verrebbe in mente di dedicare più di una nota marginale. Con Stoner, pubblicato da John Williams nel 1965, ristampato nel 2003 dalla New York Review Books ed edito in Italia per merito di Fazi, ci troviamo di fronte a uno di questi rari casi.

È difficile svelare l’alchimia che rende interessante il racconto della vita di un professore universitario di estrazione rurale residente nella provincia americana, che dopo il conseguimento del dottorato in Filosofia passa tutta la propria esistenza dietro un’anonima cattedra dell’Università del Missouri, senza peraltro mai superare il grado di ricercatore; le cui uniche vicende professionali degne di nota sono la pubblicazione di un libro e il titanico scontro accademico con un collega, originatosi per una questione di principio e destinato a vederlo soccombere; che nella vita privata affronta la dolorosa esperienza di un matrimonio fallimentare con una donna isterica e anaffettiva e di un rapporto incompiuto con la figlia, alla quale, specialmente in età più matura, è incapace di trasmettere tutto il suo amore; che riesce solo per un breve periodo a sentirsi vivo grazie all’appassionata relazione extraconiugale con una studentessa, consumata nell’indifferenza della moglie e destinata a naufragare per il rigido bigottismo dei benpensanti e dei custodi delle apparenze; che scompare, alla fine, senza lasciare nessuna orma indelebile del suo passaggio su questa terra.

Il segreto, forse, è rappresentato dagli Stoner nei quali ci imbattiamo ogni giorno e che a volte, subdolamente, si nascondono dentro di noi. Stoner, senza mai assurgere al ruolo di antieroe o di exemplum da evitare, ci ricorda ugualmente come ognuno di noi possa sprecare inconsapevolmente il meglio della propria esistenza, accettando passivamente una vita senza amore e segnata dall’indifferenza altrui fino a trasmettere agli altri il vuoto circostante ormai interiorizzato, in un circolo senza fine. È impossibile non solidarizzare con lui, ma di fronte al suo atteggiamento non si può rimanere indifferenti e la lettura di queste pagine deve far scaturire nel lettore un naturale fremito di ribellione: “Sempre, fin dalle sue prime, maldestre esperienze come matricola del corso di inglese, aveva percepito l’abisso tra i sentimenti che lo studio suscitava in lui e la sua capacità di esprimerli in classe”. Il punto è proprio qui: Stoner, in ogni atto della vita, non riesce a superare lo scarto tra i suoi desideri e la loro realizzazione, tra i pensieri che si agitano in lui e la loro traduzione in azione pratica. Stoner richiama alla memoria l’oblomovismo raccontato da Gončaròv, ovvero l’incapacità di affrontare i fatti e gli accadimenti del vivere comune, ma in realtà, a differenza di Oblomov, non si rifugia nel rassicurante mondo delle mura domestiche e affronta personalmente ogni esperienza con una prospettiva che, tuttavia, alla fine risulta distorta: la sua vita viene rovinata da episodi ai quali non è in grado di dare il giusto valore, da decisione abortite, dall’incapacità di fuggire dai vincoli di una quotidianità soffocante che ne causa un precoce invecchiamento.

Il lato meraviglioso del romanzo è la capacità di Williams di descrivere tutte queste vicende con un linguaggio solo apparentemente piano e uniforme, ma che in realtà, senza nessun giudizio morale o cedimento alla soggettività, ci fa precipitare nella più intima interiorità del protagonista. Fino al momento finale, a quell’addio alla vita narrato nelle pagine conclusive che, come sottolinea Peter Cameron nella postfazione, “narrano l’esperienza letteralmente inenarrabile della morte con una trascendenza più spesso rintracciabile nelle arti svincolate dalla restrizione del linguaggio”.