«Notazioni sui fastidi del sonno» di Letizia Leone

 

Recensione di «Notazioni sui fastidi del sonno» di Letizia Leone. Articolo di Chiara Catapano.

Un risveglio sotterraneo, ipogeo, disegna i confini del sogno che si perde dentro i riflessi e le prime luci dell’alba. Io li chiamo “sogni veri”, e sono un’esperienza che in molti hanno, nella loro vita, provato. Poi vi sono sogni che non sono mai stati tali, che hanno eluso la notte e le ombre della città, incedendo con tutto il peso della fisica newtoniana dentro le nostre stanze, lungo i corridoi silenziosi, nella penombra di un androne in una casa romana. Di questo in pochi ne fanno esperienza, e non si può dire se siano sogni o incubi: hanno semplicemente vita propria, ci conducono nel loro subconscio e ci abbandonano, al mattino, in una qualche lontana periferia.

“Notazioni sui fastidi del sonno” è una partitura cavernosa, dove la voce, per noi che dormiamo, è l’appena accennata nota di un remoto contrabbasso, di un pianoforte suonato a qualche isolato di distanza. Come tale, giunge coi contorni frastagliati, con una folata di vento, con l’odore del caffè che dalla cucina qualcuno sta preparando.

Letizia Leone traduce la sintassi di questi eventi distanti dalla luce, e lo fa attraversando il linguaggio come si attraversa una città bombardata. Non è di fantasia la stanza al di là del sonno; sono le concrezioni di ciò che le rimane appiccicato addosso, quando la luce svanisce i lamenti dei sogni, e il loro stesso sognarci.

Nessuno stupore dunque, se a chiamarla sono personaggi da lei appena conosciuti, un’intuizione nella sua coscienza; oppure poeti amati, compagni di viaggio di un altro mondo, che bussano ad una porta già aperta. Iniziano così le Notazioni, un diario notturno scritto al fievole lume dei lampioni.

Se nel nostro tempo siamo ancora in grado di interpellare una metafisica, è quella delle immagini che ci risponderà. Immagini come ritagliate da vecchie riviste, inanellate a formare un discorso sempre aperto. Leone questa metafisica la conosce bene: e sono voci senza immagine – come potrebbe essere altrimenti? – a concretizzarsi sotto i suoi occhi. L’iconoclastia santa dell’ebraismo, le lettere senza volto, i nomi senza nome: perché l’immagine non divenga stereotipo, ma si pieghi sotto lo sguardo, fino a divenire esperita presenza. Vi parlerò dunque del primo capitolo, del primo incontro: di Gottfried Benn. Il poeta dottore del nazismo, il sasso nella scarpa della poesia, l’imperdonabile di Cristina Campo: alla periferia di Roma ma anche nel cuore di una Berlino sotto i bombardamenti, lì avviene il fortuito incontro. Un incontro fuligginoso, di cui Leone cerca il cuore, fin dal primo spaesamento:

Catapultata in un luogo estraneo tra caseggiati cupi, cammino per vie sconosciute, cerco di non perdere di vista quest’unica persona che vi va allontanando, la sua figura così attaccata al suolo, i suoi movimenti pesanti tra rincorse e sussulti.

Il mio unico appiglio in questo strappo temporale.

Gettata in un evento imprevisto, sono come il clandestino che sfida il tradimento a ogni passo. Se alzo lo sguardo vedo una città dai palazzi imponenti e minacciosi, edifici neoclassici anneriti dagli incendi, vedo i dettagli di un manifesto strappato e le lettere dei proclami. Pezzi di lettere rosse centrifugate in un cupo incantesimo di violenza.

Non mi resta che aggrapparmi a questo pedinamento, dentro la realtà di strade ignote che forse regnavano nel lato più ampio della notte. Mi è bastato spiare qualcuno, seguirlo, per irrompere in un’altra storia?

Clandestinità che s’incolla a ogni passo, pagina dopo pagina: lo sguardo traverso, occhi in cerca di un profilo, di una prospettiva conosciuta, tra le linee di fuga di luoghi che attendono un battesimo. E l’anima s’adatta con la vista alla semioscurità del racconto.

E sempre nella semioscurità si muove Leone, assieme ai suoi compagni, alle ombre viventi, nell’impasto del sonno. Ne “L’antro” di Dante o sulle sponde del Neckar in una torre dimenticata, in “Esercizio di morte”. E bisogna scendere, sempre scendere, fino all’ultimo capitolo: seguire il poco lume e l’odore di cera, in un basso d’Alessandria e trovare Kavafis come da sempre lì, come se nulla possa mai cambiare.

E tutte le storie sono incessante cercare il cuore, “follia festosa” di  percepire il buio ruvido come unica sostanza possibile; odore di torba, di terra bagnata, di antri come ventricoli cardiaci. Una pompa invisibile nell’organismo della parola, fioritura vermiglia:

Friedrich Holderlin resta fermo ad annusare il tardo tramontare della città. Ha dormito su una panca di legno tra le navate della cattedrale ma adesso si ritrova come una statua in mezzo alla piazza, osserva la gente, il traffico. È disorientato, senza un soldo, con i vestiti sporchi e non conosce nessuno a Parigi. Ha comminato per giorni dentro un incubo, solo, sempre solo. Ha attraversato luoghi sconosciuti febbricitante, con l’invadenza delle visioni a infiammargli i nervi. L’arte non dà alcuna salvezza. (…)

Il buio che scende sulla terra è lo stesso che abita i defunti, come mai non ci aveva pensato prima? È lo stesso buio che ingoia l’universo là dove non c’è vicinanza di stella, e arriva qui insieme al freddo, ne percepisce i brividi.”

Così crepuscolare anche lo scambio di liquidi cerebrali, le sinapsi della ragione come disciolte nel brodo primordiale, in un silenzio scivoloso, in ascolto del battito che ci risveglia, che ci riporta in vita.

I fantasmi sono presenze aguzze in questo mondo. Sono rimasti attaccati al loro osso che hanno raschiato in notti lunghe di smisurata ingiustizia.”, in “Esercizio di morte”.

Forse che rendersi simili ai propri fantasmi, assimilarsi al loro desiderare, concederà una tregua alla ricerca? Forse che il cuore non è altro che questo bruciare senza immagine, il ciano e il rosso di una fiamma sola, nel poco suo corpo, che s’appoggia per vivere al proprio supporto.

Lui stesso ha dichiarato una volta che si aggira senza scampo per tenebrose camere e che l’irruzione del sole dalla finestra potrebbe essere vissuto come un’altra tortura. (…)

Questo fievole lume è luce incantatoria che sfrena l’immaginazione…”

Così in “L’odore di cera”.

Da dentro il linguaggio, dunque, e dentro i suoi suoni affiorano le immagini: similmente a quando, chiudendo gli occhi, dal nero risvolto delle palpebre vibranti fioriture si compongono in elementi mano mano più familiari. Nebulose e stelle lontane, la stanza silenziosa, l’eco di un qualche pensiero che ancora non ci abbandona.

Ma un racconto dove inizia? Parole che suonano e l’orchestra che accorda gli strumenti sul diapason dell’immaginazione. In questo Leone è bravissima. Perché conosce profondamente la tradizione, e crede altrettanto profondamente che immaginare è essere; e non si confonda qui immaginazione e fantasia, dove la seconda ci informa semplicemente di una fuga, mentre la prima attinge diretta dal proprio modello, come suggerisce la mimesis platonica, attraverso “immagini di parole” (Tim. 71 A ss.): perché l’anima apprende il vero, sempre secondo Platone, per via di “immagini e fantasmi”.

Un racconto inizia perciò dalla prima fonte di apprendimento, dalla contemplazione della propria immagine riflessa. E il suono che l’attraversa, la voce che suggerisce la via per la risoluzione, sarà quella immanifesta, priva di contorni, se non quelli delle lettere che si vanno componendo sul bianco del foglio.

Così Leone ci trasmette un linguaggio davvero originale, nel significato suo più profondo di ritorno alle origini; e riesce a comunicare l’oggi – cosa davvero difficile in letteratura, in questo periodo storico – perché consapevole che ogni suo passo, per quanto cieco, per quanto avvolto nella tenebra della coscienza, la condurrà dentro la storia.

9788868816490