L’umana scienza del verso. Una nota a "Verticali" di Bruno Galluccio

L’umana scienza del verso. Una nota a “Verticali” di Bruno Galluccio

Recensione di “Verticali”, raccolta poetica di Bruno Galluccio.

“Il vento di questa sera d’inverno
ci accompagna con un fruscio,
quiete di frasi mozze
mentre si abbattono i recinti dei ricordi.
Fiumi di tempo sono passati inosservati
mentre io qui attendevo votato ad un frammento.
Quell’io attende ancora, stralunato,
lacerante antenato viene ad affacciarsi dai sogni.”

Connubio fra matematica e poesia! «Non solo», ci rammenta questa che ci precede, esempio di impressioni vive, di inverno memoria e sogni. Di fatti il dettato e il timbro presenti in Verticali svolgono una funzione generatrice: è poesia di ispirazione multiforme.

In relazione al linguaggio due motivi fondanti si fanno sentire da subito. Il primo è proprio la direzione dello stile. La scrittura prende la rotta verticale, perché il linguaggio è verticale. Taglia l’orizzonte! Il Piano di emersione del poeta esprime l’affiorare in superficie della parola, la germinazione biologica del verso non legato ad una retorica o ad una scuola letteraria ma connesso alla scienza («ma quando dicevo vento | intendevo davvero il vento | con tutto il nero e le rotazioni che conduce»), alla fisica («lo spazio diveniva visibilmente più curvo | secondo alcuni per un recente addensarsi della materia»), persino alle percezioni, campo tanto esplorato dalle neuroscienze («i treni accadono precisi | oltrepassano il fondo estremo della retina» e ancora «nello specchio iridi in cerca d’origine | reti neurali custodiscono la loro media | strutture verbali resistono a vibrazioni sonore»). Si assiste al manifestarsi poetico come alla crescita di una pianta, si diceva una germinazione naturale con assenza di punteggiatura e lettere maiuscole, quasi a comprovare la spinta evolutiva, spontanea e fluida – comunque obbediente ad un piano – delle parole, la fase iniziale di una sostanza, una situazione in via di sviluppo. Da qui il «lato rovescio del pensiero» accennato sin dall’inizio, non una ricerca di orizzonte – il grande archetipo immaginativo dalla poesia antica a quella moderna – ma un’esplorazione che predice una dinamica, un movimento, anzi lo richiede. Proseguendo nella lettura, Proiezioni viene a rappresentare il risultato più evidente di tale progresso, ora punteggiatura e lettere maiuscole contribuiscono a fornire una fisionomia. Appropriamoci a modo nostro della logica di Spinoza – da una poesia naturans si passa ad una poesia naturata («Si cammina sfiorando in questa selva | umida di pace»), eppure le due fasi linguistiche non sono separate o lontane fra loro, al contrario convivono in simbiosi. La mutevolezza si caratterizza vera cifra attraverso cui il flusso di significati continua a proporsi nel testo. Si giunge così al secondo motivo della poetica suggerito dai versi finali che concludono Proiezioni: «Fa male il corpo, | l’averlo semplicemente». Il corpo sente in carne e spirito, ma l’uno non esclude l’altro; di un dolore fisico ne avvertiamo le ripercussioni sul piano psicologico e viceversa un malessere interiore trova la sua via di fuga sul corpo. La scienza del corpo si fonde con la coscienza umana. Allora si comprende meglio il senso: il poeta intende ricordarci che la vita oscilla fra scienza e coscienza, li richiama reciprocamente sia che si tratti di dolore, piacere, sentimento, pensiero o stato d’animo. La vita è la somma di questo duplice rapporto.

A seguire, il poema dedicato a Georg Cantor – un testo a due voci, l’una descrittivo-narrativa del poeta e l’altra, in corsivo, dove riconosciamo senza difficoltà il matematico – rappresenta l’esempio topico dove la poesia si imbatte nella «gerarchia delle infinitudini», ma altresì rimarca la febbre analitica dello stesso Cantor («gli irrazionali hanno fatto breccia nella mia vita fino all’osso») in modo da farci scoprire tanto nel verso quanto nel numero un’armonia di simboli volti a spiegare, per l’appunto, la scienza e la coscienza: «era l’infinito che mi apparve così vicino». L’ultima sezione opera una simmetria particolare, la prima e l’ultima sono scritte con regolare punteggiatura (le poesie naturate) mentre le altre fra queste comprese tornano a rievocare la biologia naturante a testimonianza del rigenerarsi del linguaggio. Di nuovo l’impulso, la propensione di Galluccio per indagare sul linguaggio, diretto alla comprensione dei piccoli enigmi del quotidiano («da qualche parte deve pur esserci un punto | di inversione | uno zero graduale | un segno che c’eravamo stati »), capace di riaffermare la realtà esteriore sotto una luce diversa («è l’accelerazione terrena | che azzanna i passi | e consuma le scarpe»; «aspettando un mutare improvviso delle ruote stellari | e delle voci che schiumavano dalla cucina | come rumore bianco»). Tuttavia laddove siamo vicini a riconsiderare la realtà negli aspetti meno noti e più difficili da percepire, «il discorso cade rialzandosi | i giochi completi sono nuovamente disfatti | il quesito viene gettato sempre più lontano» e di conseguenza anche noi cadiamo «nel giorno del calcolo per incognite».

Scendere nella poetica di Bruno Galluccio significa scovare la sottile linea congiungente segni di diversa natura che fanno scaturire l’incanto nella nostra coscienza, se è vero come dice un recente articolo di Scientific American che la bellezza nell’arte e nella matematica attiva una stessa area del cervello.

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