Leggenda della mia nascita di Besnik Mustafaj

“Leggenda della mia nascita” di Besnik Mustafaj

È da poco uscito per le edizioni Ensemble, nella collana Erranze diretta da Gëzim Hajdari, “Leggenda della mia nascita” di Besnik Mustafaj.

Besnik Mustafaj – in questa raccolta di poesie tradotto dallo stesso Hajdari – è senz’altro uno dei più validi poeti e intellettuali albanesi viventi.

Uomo dal multiforme impegno politico oltre che poetico, il Poeta Mustafaj, dopo aver contribuito a fondare il Partito Democratico Albanese, si è infatti speso nella rifondazione della sua Patria come Ministro degli Esteri e come Ambasciatore in Francia: esperienze queste indubbiamente passate come habitus della sua poesia, che nella propria eleganza quasi di petrarchiana lezione significano per sottrazione la misura esatta del dolore così come quella dell’amore.

Leggiamo infatti in Passeggiata notturna nel bosco (ivi), una poesia che potremmo definire come manifesto di alcune sue intenzioni:

Tacciono gli alberi, le pietre, i fiori selvatici.
Ed io, viandante smarrito,
Canto per far loro compagnia.

Sono solo nel silenzio della notte.
Canto e il buio si dissolve,
non mi sento più solo.
Sento i passi di lei che si avvicina,
lo sbatter d’ali degli uccelli,
il fruscio degli alberi mi sussurra parole sconosciute,
sulla mia camicia celeste
le cicale richiamano l’estate e il sole,
rammento gli occhi di lei che mi cercano
come se volessero proteggermi,
nelle sue labbra divento acqua, aria, luce, fuoco.

Il bosco si sveglia all’improvviso
e per non distruggermi, il sogno
si ferma lontano.

Ecco infatti che dopo l’incipit che quasi riecheggia motivi e forme della celeberrima opera del Petrarca, l’esperienza del dolore che è appunto sottrazione e estraniazione dalla realtà circostante, è sopraffatta dalla vita come sistema inesorabile di natura che non annulla le mancanze ed i grandi patimenti umani, ma nell’esperienza del sentimento individuale, evolve in inarrestabile speranza di emancipazione ineludibile come in un tempo ciclico: mai però totalmente realizzata, giacché la dimensione della perfetta felicità dell’essere umano potrebbe esuberarne la misura senziente annullandolo nella sua capacità razionale che è e resta unica bussola nel suo sistema di catalogazione e di appropriazione della realtà:

[…]

Con la luce negli occhi guarisco le ferite
e mi alzo per proseguire il cammino.
All’inizio della strada
mi attende il mio sogno.

[…]

( O corvi che mi divorate, ivi)

Ed ancora:

La casa senza Dona

Nessuna cosa mi obbedisce.
Le mie cose sulla scrivania
si muovono da sole
creando disordine,
i vetri della finestra si appannano,
Il sole pallido d’inverno
Resta fuori come un orfano,
tremano le lenzuola nel letto
e mi si scoprono le spalle,
anche i lacci delle scarpe
si annodano stranamente
ogni mattina
mentre ho fretta di uscire.

Nessuna cosa mi ubbidisce.

Nel più classico dei binomi infatti la ragione che è accanto al Poeta in un’analisi quasi spietata, si accosta ad un mondo interiore profondo ed incolmabile che rielabora assenze e negazioni simile agli insondabili cieli di Provenza nei paesaggi notturni di Van Gogh, che alcuni tratti delle prime due poesie rispettivamente riportata e citata paiono richiamare.

Ancora poi, l’assenza del soggetto d’amore che è significativamente nome omen della Poesia, vincolo e veicolo per la soggettivazione del vissuto altrimenti collettivamente e personalmente abnorme dell’abominio dell’Esilio, crea uno sconquasso, una bussola che “più non torna” nella quotidianità misteriosa ed intima presente nel contingente più minuto, sottraendogli l’unico senso ancora possibile: quello intrapsichico e soggettivo, salvifico, magmatico di una Vita/ Natura capace, nell’ombra della propria individuale condizione, di tornare a farsi Vita:

Tra i suoi capelli e il mare ( ivi)

Il mare soffia, ondeggia e tira fuori la sua rabbia
l’urlo gigantesco del mare al crepuscolo
scatenato dallo scontro della terra con il cielo,
di chi è il sole e di chi è il suo amore?

Il mare impazzisce e tira fuori i suoi gridi,
e si tira indietro rumoroso, sospiroso,
nel suo vortice immenso
non ha tempo di richiamarmi.
Ma io, nella sua bianca schiuma, cercò
la ricreazione di un volto amato e perso.

Cerco l’unico testimone del silenzio
e delle parole di quella notte,
cerco le sillabe di un dolore
perché non posso tacere né dire parole assurde.

Invano cerco tra le onde la bianca schiuma,
in quella notte il mare viveva nei suoi lunghi capelli.

E questo binomio ancestrale che potremmo volgarizzare come intercorrente tra razionale e emotivo, verte la problematica della Patria non meno che quella del singolo nella Lirica del Nostro che, non a caso, lo stesso Hajdari ha definito, in questo rigore quasi esistenzialista, mitico ed epico perché assolutamente aderente alla realtà.

Avvicinare i versi di Besnik Mustafaj significa infatti per il lettore incontrare uno stupore non comune, inatteso: la sua parola poetica ha un afflato tanto cortese quanto di chirurgico garbo; oltre ad un’esattezza millimetrica, che riesce a tarare il mondo con occhio scaltrito nell’orrore della dittatura senza però mai perdere l’incanto di una realtà che è sempre, significativamente, più bella e salvifica della sua teterrima apparenza.

La dizione assolutamente personale della speranza – spesso segmentata nell’esperienza d’amore, intesa come cavalcantiana, individuale maniera e dimensione del mondo esperito -recupera l’orrore di un’esperienza che è invece, al contempo, individuale e meta-individuale: quasi ancestralmente mitica e fondativa del male che è poi mancanza, negazione.

Nel distacco, a tratti parrebbe, scientifico che caratterizza la sua dizione del mondo, soggiace invece, probabilmente, un desiderio di definizione “per sottrazione” da ogni esornativa deviazione dall’essenza: dal tentativo di approssimazione all’Assoluto.

Nei versi di Besnik Mustafaj si rincorre infatti un garbo che ricompone la sofferenza analitica che attraversa il filo rosso di denuncia sotteso a questa sua Opera, nella scelta di un’oggettività fatta di concrete dizioni: le quali tentano la via della qualificazione oggettuale, quasi in un disperato richiamo alla verità che possa distanziarsi da ogni tono empatico, quindi soggettivo, quindi interpretabile, che ci si aspetterebbe.

Una poesia analitica dunque, non simpatetica; in cui l’occhio tenta una distanza di osservazione capace di misurare dolori non commensurabili, che minano l’identità personale e culturale aggiogandole in un parallelo e profondo sentimento della frattura, della perdita:

Nella città dell’infanzia (ivi):

3.

[…]

Mia infanzia-

sei una Rozafa rinchiusa nelle fondamenta della nuova città.

Ma non hai lasciato fuori delle mura
né la mano,
né il seno
né gli occhi.

Il verso virile e scabro della disillusione e della perdita, sfuma allora verso l’immagine gentile dell’intimità; verso il fervore inarrestabile della natura, il valore pieno ed altissimo dell’amicizia e della tradizione in un neo umanesimo che con occhio cosmopolita ben più che apolide ambisce a veder risorgere, dalle macerie del secondo millennio, l’Araba Fenice di una nuova Humanitas nel tempo arduo della (post)complessità.

Leggenda della mia nascita di Besnik Mustafaj

Leggenda della mia nascita di Besnik Mustafaj