La poesia di Carmen Talarico: la parola come cura

La poesia di Carmen Talarico: la parola come cura

Recensione di “Ordini e disordini”  (Pav edizioni) di Carmen Talarico (illustrazioni di Veronica Cairo).

Carmen. “Plurale: carmina”, risuona subito nella mente di un ex studente di liceo classico, e “…non dant panem”, aggiungono immediatamente dopo i padri eterni arroccati dentro molti di noi. Ma non è vero: la poetessa Carmen Talarico nel suo “Ordini e disordini” (OeD) offre senza alcuna difficoltà e con la sua tipica gentilezza il “profumo del pane caldo” ad accompagnare il risveglio, che va inteso come “risveglio dell’Anima” (OeD, pagg. 51-52).

Prima di OeD, Carmen ha pubblicato “Fluire. Taccuino del viaggio” (F) e per ultimo – nel 2021 – “Ricamo d’anima. Tessiture generatrici” (RdA). In questi libri possiamo seguire molti temi che si inseguono, fluiscono, in una tessitura intrecciata nel “solido telaio” (RdA, pag. 15) fatto di fervida immaginazione e squisita sensibilità.

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Da medico, vorrei iniziare il mio commento mettendo in risalto i brani che si riferiscono alla cura. E partirei dal folgorante “Sono felice se mi prendo cura del suo viaggio” (RdA, pag. 74). Questa frase, pronunciata da un’alter-ego di Carmen è una dichiarazione di poetica al tempo stesso fragile e potente.

È una frase che non stupisce certo in un’autrice che vede bisognosi di cura anche gli strappi che si producono intrecciando “l’ordito e la trama per creare una nuova tela” (RdA, pag. 15): qui deve intervenire la “tessitura curatrice, generatrice e trasformativa” (RdA, pag. 17) che sembra richiamarsi all’antica arte giapponese del kintsugi. Anche il ricamo a volte può servire a sottolineare e al tempo stesso a nobilitare uno strappo.

Ma il testo che a mio parere illustra meglio la poetica di Carmen in tema di cura è il brano intitolato appunto “Il prendersi cura” (OeD, pagg 27-28), nel quale si legge: “il prendersi cura è una speciale lente di ingrandimento rivolta verso l’uomo”. La cura si realizza grazie a “inconsapevoli mutui scambi di sentire e di esperienze di vita che creano un flusso continuo di ordine-disordine. Chi si prende cura di chi?”.

Con questa domanda Carmen entra immediatamente in sintonia con un’esperienza comune a tanti medici, che però spesso noi non riusciamo a esprimere. Per farlo, la cosa migliore è rivolgersi alla filosofa Ilaria Gaspari:

Prendersi cura di qualcuno significa preoccuparsi del suo benessere; ma preoccuparsene in che senso? Forse semplicemente nel senso di occuparsene. Di darsi da fare, a partire dal presente, da un momento che è qui e ora: il momento in cui vediamo quell’altro che ci sta di fronte e sentiamo che possiamo essere noi la mano che lenisce, la voce che tranquillizza. Che possiamo essere presenti di fronte a chi della nostra presenza ha bisogno. È precisamente quella tensione, allora, che ci guarisce, ci dà sollievo, almeno un poco, nell’atto di prenderci cura di qualcuno o qualcosa – persona, pianta, animale, oggetto inanimato, pianeta; noi stessi, anche. Che ci cura, appunto, creando un cortocircuito capace di spezzare il narcisismo della compassione come pura proiezione dell’ego. Quando abbiamo, di qualcuno, una compassione solo teorica, diciamo: in assenza di cura, quella compassione è un esercizio di narcisismo – certo, può essere un mezzo di conoscenza, un filtro attraverso il quale vedere in una luce nuova noi stessi e quel qualcuno di cui intuiamo il dolore; ma se poi non sopravviene, alla compassione, la cura, rimane un virtuosismo un po’ vuoto.

Invece, quando amiamo, riprendendo la definizione di amore forse più bella e compiuta che sia stata formulata da un filosofo, ovvero quella che Spinoza offre nell’Etica, succede che alla presenza di un qualcuno che ispira il nostro amore viviamo una forma di gioia (laetitia); che, tradotta dal lessico spinoziano, significa il passaggio a un’accresciuta perfezione. Passare da una minore a una maggiore perfezione vuol dire esistere con più intensità, perché più attivi, più responsabili, più capaci di comprendere le ragioni di ciò che accade in quel labirinto di effetti e di cause che innerva il mondo in cui viviamo. La cura, allora, quando amiamo così, consiste nel fatto stesso di accrescere la nostra gioia di vivere. La cura di chi amiamo, e di noi stessi, sta proprio in questo progresso nella pienezza dell’essere, in questo assumerci la responsabilità di non subire la vita, ma farcene carico”.

Questo lungo brano sembra parafrasare una succinta frase di Carmen: “L’esserci, la gentilezza, l’ascolto empatico sono l’ordinata triade di un reciproco scambio di umanità e di luminosi viaggi di resilienza” (OeD, pag. 28).

E credo che Ilaria Gaspari apprezzerebbe in modo particolare la poesia intitolata “Abbi cura” (RdA, pagg. 93-94):

Dello sguardo
Della parola
Delle tue azioni

Di te
Del tu
Di noi

Di un albero
Del filo d’erba
Della conchiglia

Della tua anima
Di un sogno
Ancora.

In un certo momento della sua vita, l’autrice ha avuto esperienza diretta della malattia e del suo penoso corteo di bisogni che inevitabilmente necessitano di cure. A causa di un trauma, Carmen ha avuto una frattura cui “ha fatto seguito la rottura di argini emotivi che ha fatto straripare pensieri fino a prima sopiti” (F, pag. 13). Ed ecco nascere la poesia intitolata “La frattura”, pubblicata nell’antologia “Etesia” (E) a pagina 141:

E fu frattura:
dolore
paura.

E fu notte scura:
abbandono
solitudine.

Poi un Nuovo Vento:
musica e poesia.

E un mare
Per respirare

In tempo di pandemia, Carmen sposta il suo sguardo sul mondo dei sanitari che lei guarda con profonda empatia e che descrive come astronauti collegati a distanza con il pianeta terra. La poesia si intitola “Atterro sulla luna” (RdA, pagg. 52-54):

Igienizzo mani, piedi, capo
e l’anima.
M’infilo una tuta da astronauta
e navigo
in uno spazio senza sogni.

(…)

Poggio il piede
sulla luna terrestre
dove si è figli dello stesso fango
in assenza di aria.
Manca anche a me.

(…).

Ma la sua poesia più bella ispirata dalla pandemia esce dalle mura dell’ospedale per soffermarsi con incantevole immedesimazione sul particolarissimo impatto che questa tragedia ha avuto sui giovani. Leggiamo “Sapori agrodolci” (RdA, pag 64):

Partenze rinviate.
Incontri annullati.
Sogni congelati.

Il fiore dell’illusione
Per la mia maturità
e il sapore della solitudine
per la mia giovinezza.

Strettamente legato al tema della cura, vorrei citare il ricorrere dell’abbraccio nei testi di Carmen Talarico. Comincerei proprio dalla poesia intitolata “L’abbraccio” (E, pag. 136):

L’Abbraccio: la culla
Che infante ti ha accolto.

L’Abbraccio: la dimora
Che sorrisi e lacrime ti ha raccolto.

L’Abbraccio: il porto
Ove hai ormeggiato in acque agitate.

L’Abbraccio: l’incertezza
Ora che è negato per sicurezza.

Nel finale della poesia ricompare il tema della pandemia e del suo incidere non solo sui corpi ma anche sulle abitudini più care. Questo lo ritroviamo in “Silenzio. Lacrime in gola” (RdA, pag. 55), dove al sogno dell’alunno “Abbracciare te, maestra” si oppone il timore della maestra “Non ti abbraccerò più. Forse”.

Possiamo ricordare anche gli “abbracci mimati” (RdA, pag 59), gli “abbracci felici” (RdA, pag 61), “l’abbraccio della lentezza” (RdA, pag. 96), “l’abbraccio protettivo” dei tigli (F, pag. 35), i “delicati abbracci” delle fronde degli alberi (F, pag. 36), l’abbraccio “in un unico battito” dell’orologio del tempo e dell’orologio del cuore (F, pag. 22) e “l’abbraccio che scioglie i nodi della distanza” (F, pag 40).

Il terzo tema è quello dell’infanzia, la stagione nella quale si ha l’esperienza più meravigliosa della cura che ci riservano i familiari e che è testimoniata anche da infiniti abbracci dati e ricevuti. Ma un’infanzia felice è anche il tempo di una libertà assoluta e irripetibile. Carmen ce lo ricorda nei due splendidi versi che chiudono la poesia intitolata “La bicicletta” (RdA, pag. 91):

“tracciavo l’infinito
nel perimetro di un terrazzo.”

Naturalmente l’infanzia è il tempo del gioco, che per Carmen è innanzitutto la campana (gioco dai mille nomi: riga, paradiso, settimana, fino alla rayuela di Julio Cortázar). Si tratta di un “algoritmo perfetto: un sassolino, una casa tra alberi sempreverdi, il profumo dei frutti della terra” (OeD, pagg. 9-11).

Ma l’infanzia è soprattutto il tempo dei nonni, che ancor oggi si riconoscono nelle le parole di uno dei più appassionati nonni della letteratura, Victor Hugo:

“I figli dei nostri figli ci incantano, sono delle giovani voci mattutine che trillano. Sono nella nostra lugubre abitazione il ritorno delle rose, della primavera, della vita, del giorno! Il loro riso ci fa spuntare una lacrima sulle pupille e fa trasalire le pietre della nostra vecchia casa; il loro sguardo radioso disperde i terrori della tomba semi-aperta e degli anni gelidi e gravi; essi riconducono la nostra anima ai primi anni; fanno riaprire in noi tutti i nostri fiori secchi; e ci ritroviamo dolci, semplici, felici di nulla; il cuore sereno s’empie di un’onda aerea; vedendoli si crede veder sbocciare se stesso; sì, diventar nonno, è ritornare all’aurora”.

Nella poesia dedicata alla nonna (RdA, pag. 86-87), Carmen si rivede piccola e riesce a esprimerlo magistralmente curando le parole e scegliendo di ritmare quattro versi consecutivi con altrettanti diminutivi:

l’odore di paglia della mia seggiolina
e la stufina.
I piatti di porcellana con le roselline
l’aroma del caffè nella tazzina col bordo in oro.

Del nonno invece Carmen ricorda la scrivania (RdA, pagg. 88-90):

Avevo sei anni
quando per la prima volta vi appoggiai i gomiti
e con le mie piccole mani operose
iniziai a scrivere.

È davvero significativo che la scrittura di Carmen inizi su questa scrivania “bella, altèra, austèra”, che – come il castagno di cui era fatta – affondava le radici nei monti della sua terra.

Vorrei concludere questa mia breve e ahimè lacunosa carrellata sulla produzione di Carmen Talarico, con la poesia che forse prediligo tra tutte e che trae nuovamente ispirazione dalla pandemia, vento maligno che ha soffiato e continua a soffiare sulle nostre vite.

La poesia si intitola “Mi mancano” (RdA, pagg. 41-43) e compie il miracolo di non dare voce al rimpianto, preferendo esprimere un genuino entusiasmo per “my favourite things”. Leggiamola insieme, immaginando in sottofondo le note del celebre brano di John Coltrane:

I monti della mia terra
silenti e imponenti
innevati a Natale
culla di luce
sul mare.

Aspettare
un autobus
un treno
viaggiare.

Osservare i volti della gente.
Pregare nei luoghi santi.
Scoprire nuovi borghi.
Dormire fuori casa.

Bere un tè
con la mia amica.
Andare al ristorante.
Apparecchiare la tavola
per tante persone.

Leggere in libreria.
Vivere un teatro.
Visitare un museo.
Ascoltare un concerto.
L’odore di popcorn al cinema.

Accogliere
Gli slanci senza paura,
gli abbracci, le carezze,
le certezze.