La geometria del precariato, i teoremi di Francesco Zanarini

La geometria del precariato, i teoremi di Francesco Zanarini

Recensione di “Le vite sghembe” di Francesco Zanarini (Ensemble, 2012).

Due rette sghembe non sono necessariamente due linee che divergono – anzi due linee divergenti possono giacere su uno stesso piano e non essere sghembe -, ma che insistono su piani differenti. Metaforicamente nella società il piano si può identificare con un territorio di diritti e opportunità, mentre le rette, cioè i percorsi che ognuno di noi compie – i quali potrebbero essere linee sinuose e accidentate – dovrebbero essere contenute su uno stesso piano. Se il piano dei diritti, di determinati valori e delle varie opportunità non è quello condiviso e condivisibile, è evidente che viviamo una “vita sghemba”.

Il titolo rende molto bene la storia e i temi del romanzo di Francesco Zanarini, quelli di generazioni senza certezze, addentate dai morsi del precariato come condizione esistenziale, modus vivendi. Un precariato che si estende a macchia d’olio e include altre generazioni o strati sociali intoccabili fino a non molto tempo fa.

La storia di Gillo – diminutivo più “sostenibile” di Glauco Gillotti – diviene paradigma di una ricerca, quella di un’occupazione stabile, che si potrebbe tradurre anche in semplici opportunità per un imprenditore, un’artista e perfino un ricercatore. Gillo consegue il dottorato di ricerca, che nell’insieme matematico che lo definisce si rivela essere una retta sghemba come un’altra, con i suoi rinnovi contrattuali appesi a un filo, con i suoi impegni non istituzionalizzati, non certificati sempre da una carta che dica che si è al posto giusto facendo una cosa giusta e correttamente remunerata. Gillo ha una ragazza, Samoa, e l’esistenza di entrambi è continuamente pervasa da questo rumore di fondo costituito dalla precarietà, fino a determinare un prosciugamento nella coppia. La storia di Gillo e dei suoi amici, soprattutto Elio e Fuzzy, si dipana tra momenti ironici, leggeri, divertenti, aneddoti vari (magistrali le descrizioni di determinati avvenimenti aziendali e i dialoghi con il linguaggio inglesizzato da call center, una sorta di esilarante slang callcenterese), che però muovono la storia, portano i protagonisti su un piano che li rende sempre più simili alle nostre vite, e nel contempo spingono Gillo attraverso varie esperienze e consapevolezze. Specialista in reti neurali non si crogiola nell’immobilismo, ma è mosso più di altri dalla  propria inquietudine.

Attraverso le storie di “quasi lavoro”, di lavoro perso, di quello che c’è e non c’è, l’autore riesce bene a far sentire quell’ossessione sottile e ragionevole che insiste continuamente sotto la pelle di  coloro che oggi non sono solo giovanissimi, ma bensì la metà dei cittadini italiani. Riescono tenere le descrizioni dei cortei con la partecipazione degli studenti o dei lavoratori, come agrodolci e in qualche struggenti sono i capitoli finali del romanzo, ma non voglio rivelare di più di quanto ho detto. Certo, anche per me come autore, mi sembra piuttosto chiara una certa comunanza di vedute e di temi, e sono stati uno dei motivi di curiosità nel leggere questo libro.

Il romanzo si presta però a suscitare alcune riflessioni, e cercherò di essere breve.

L’università per esempio è variamente trattata nel romanzo. I principali mali dell’università, che in Italia è (dovrebbe) essere fonte di ricerca e sviluppo stanno in due rette sghembe: la prima è la continua perdita di fondi, mentre la seconda è rappresentata dai nepotismi, o meglio, dalle baronie,  cioè quel fenomeno che fa considerare un pezzo dell’ateneo come proprio feudo. La protesta recente nell’università italiana non ha dipanato alcuni dubbi reali, non è stata del tutto coraggiosa. Da un lato i manifestanti hanno giustamente rivendicato la perdita di investimenti nell’università, che ormai per dirsi decenti dovrebbero almeno essere più del doppio di quelli attuali, dall’altra la protesta giovanile non ha  stigmatizzato idee e intenti chiari contro i baroni, anzi questi da una parte del movimento studentesco considerati amici perché alleati in un percorso che vorrebbe l’università più sostenuta dalle istituzioni economiche e civili del paese. Non si lotta contro il feudo del barone perché il barone è cattivo, anzi il feudatario potrebbe essere sostanzialmente un “bravo signore”, generoso con i valvassini, ma si combatte ogni baronia perché questa lede i diritti, la libertà di accesso di coloro che non fanno parte della corte o dei molti eterodossi. Ora, occorre dire che è giusto che coloro che hanno seguito o stanno seguendo un percorso all’interno dell’università, magari dietro qualche barone, siano tutelati, integrati e non sconvolti dalla caduta di qualche principato, ma è altrettanto necessario affermare che uno dei  cancri dell’università è stato ed è il parziale spreco di risorse e il cattivo utilizzo che se n’è fatto, figli delle baronie.

Sul tema lavoro invece oggi bisogna essere un po’ iconoclasti. Molti di coloro – spesso alquanto attempati – che inneggiano a valori di comunanza e di bene pubblico sono finti benevolenti, i loro impulsi  appaiono fortemente orientati alla conservazione del potere, al privare l’accesso di opportunità ad altri, all’osteggiare un vero e plurale sviluppo. Il guaio è che molte generazioni degli ultimi decenni sono state terreno di proseliti acritici di convegni di potere e di cultura. Bisogna parzialmente demolire una certa mitologia: l’accesso al pubblico impiego e le migliorate condizioni di vita non sono un’invenzione del 68′, ma esistono negli anni, nei decenni e nei secoli precedenti come strati e substrati di battaglie e conquiste propedeutiche ad altre. Se andiamo a vedere il grande boom economico-sociale dell’Italia moderna non è quello del 68′ ma del 59-60′, anzi nel 68′ esplodono contraddizioni di cui si sta pagando ancora il prezzo. In Italia non si contano i lavoratori morti in quegli anni per le fabbriche e a causa delle fabbriche, ancora adesso ne stiamo facendo i conti. Il 68′ non è stato un eden, un’esplosione di diritti – pur non mancando significative conquiste in tal senso -, e lo smarcamento da una difficile situazione avviene attraverso la crescita di un debito che graverà sulle generazioni successive. Gli anni ottanta vedono una nuova tipologia sociale, quella del disimpegno partitico, che però diviene impegno nell’associazionismo, nel volontariato, nell’adesione a un modello che premia lo stare insieme, il confrontarsi, l’esaltazione di un certo edonismo e una voglia sfrenata di divertirsi. In questo contesto la politica è figlia del 68′, pur sgravandosi dalla politicizzazione di ogni cosa (del tipo la porchetta è di destra, la mortadella è di sinistra e molto altro), e nel mondo si parla italiano, si veste italiano, si pensa italiano… anche. L’Italia cresce, il debito pubblico e i feudi elettorali pure. Il vero declino ha una data precisa, comincia lentamente nel 1990, data simbolo in cui oltre ai vizi del passato compaiono le inadeguatezze del presente, come per esempio il fare i conti con il reale sviluppo di paesi emergenti.

Bisogna però dire che oggi non tutto è cupo, affatto! Le crisi si dividono sostanzialmente in due tipi, quelle congiunturali, a cui siamo abituati dal dopoguerra ad oggi, e quelle strutturali. Secondo i modelli sociologici le crisi strutturali sono sempre destinate a rimodellare la società, a determinare nuovi scenari, a far emergere realtà diverse… E’ un fatto antropico. Io personalmente conosco realtà che stanno andando davvero forte, e sono quelle più in linea con nuove tendenze, nuove idee o che semplicemente puntano su certe qualità o tipicità, da quelle culturali a quelle manifatturiere.

Zanarini attraverso gli occhi di Gillo ci dice che “il futuro è una cosa di una volta”, quando si poteva percepire l’avvenire con gli occhi di una progressione – e poi che se si vuole una cosa occorre prendersela. Ne sono convinto, bisogna che il futuro sia una progressione, ma per fare questo bisogna anche sentirsi un po’ pionieri, prendersi gli spazi ed eliminare nostalgie che non ci appartengono. Non bisogna cercare soluzioni individuali a mali collettivi, ma essere capaci di una adeguata e costruttiva dialettica in tal senso. L’imperativo è zeitgeist!

Libro vero, romanzo consigliato.

Qui, l’articolo di Cecilia Raneri