"Inutile tentare imprigionare sogni" di Cristiano Cavina

“Inutile tentare imprigionare sogni” di Cristiano Cavina

Recensione di “Inutile tentare imprigionare sogni” di Cristiano Cavina (Marcos y Marcos, 2013).

Cristiano Cavina è un talento straordinario, bisogna dirlo. È straordinario perché sa raccontare delle storie agli adulti ma le racconta anche ai ragazzi. Perché sembra sempre che non si inventi nulla, che stia lì a raccontarci di un lui al passato, del vicino di casa, del suo amore adolescenziale. Eppure, senza che ce ne accorgiamo, parla di tutto ciò di cui si dovrebbe parlare. Parla d’amore, d’amicizia, di sogni, di scontri generazionali, di maestri di vocazione e di ruolo, di età adulta che a un certo punto arriva e non è più come prima, di guerra, di politica a chiacchiere, di lavoro, di educazione. Ma lo fa seguendo la via della gentilezza. E della bellezza.

Inutile tentare imprigionare sogni ti entra dentro come una lunga poesia: non intellettualistica, non retorica, non altisonante ma pura, genuina, straordinaria appunto.

Il senso del libro è in quel Made in Casola, epigrafato alla fine del racconto. Fabbricato a Casola, terra natia ed epicentro di tutti i suoi romanzi, di tutte le sue storie. Radice quadrata e potenza di Macondo, luogo la cui magia è però solo nel reale, nel verosimile.

Le case popolari sono messe da parte, la strada lascia il posto alla scuola, in una fauna in cui alunni e professori sono tutti a modo loro metafora di qualcosa, simbolo del proprio tempo, eroi anti-eroi e burattini della vita.

Gli ultimi due romanzi di Cavina, I frutti dimenticati e Scavare una buca, ci avevano messo di fronte uno scrittore adulto, ancora più intelligente, capace di una solidità inaspettata da chi ci aveva abituato a trattare la materia rarefatta dei ricordi e dei sogni. L’incalzante invito del primo a “scovare, proteggere e salvare ogni possibile frutto dimenticato” e il “viaggio infernale” del secondo, doloroso tributo al mondo del lavoro, ci avevano fatto dimenticare, nella loro ampiezza di significati, queste sensazioni di antica leggerezza a cui ci rimanda il suo ultimo libro.

La scuola come personalissima geografia dell’adolescenza (o campo d’azione di geni del crimine), amori andati a male, l’andare in classe come riscatto sociale di una madre costretta a lavare i pavimenti ma con la saggia ignoranza di chi conosce il significato di perdere qualcosa, insegnanti che non amano il loro mestiere e altri che lo amano a tal punto da lasciarlo sentendosi inadeguati.

E poi “quel fare politica” degli anni ottanta/novanta, retaggio antico di un certo sessantottismo che sopravvive più che sulle idee, su simboli consumati (la kefia rossa, feste dell’Unità, cortei, discorsi altisonanti e vuoti nella sostanza) e su ipocrisie (costruzioni in alcuni, ingenuità in altri).

Con il protagonista viaggiamo davvero negli interstizi che intercorrono tra quella via Emilia e il West – luogo di benessere e lotta, lavoro e ingegno, scuole e servizi sociali, manicomi, pianura che sconfina nel mare – e assistiamo alla sua lotta personale contro le ingiustizie, fatta di piani B, di insuccessi, di ingenuità, di desiderio di sopravvivenza.

La voglia di non studiare, di non applicarsi perché magari ci si salva si scontra con la voglia di stare al mondo. Chi è dalla parte giusta è persona da rispettare, sia anche un professore (“A essere sinceri, aveva una sua poesia. Fosse stato un essere umano e non un professore, saresti corso ad abbracciarlo”), ma se la parte non si capisce, allora no, non va rispettata. Perché va bene tutto ma il protagonista in un ideale corteo dell’ipocrisia, no non può partecipare.

Cavina è così, prendere o lasciare. In una storia semplice, semplicissima, ci mette tutto. Perché le cose importanti si vedono, se si vogliono e se te le fanno vedere.

Anche in una storia che può essere non sua, ma di tutti. Perché ognuno di noi ha una classe da raccontare (e ricordare), bidelli e professori da condurre al tempio della memoria, delusioni adolescenziali, momenti in cui tutto intorno sembrava finto e ingiusto. Eppure abbiamo voglia di ascoltarlo Cristiano Cavina: lo scrittore-pizzaiolo, lo scrittore-bambino, lo scrittore che più di altri, più di tutti, nel suo incredibile microcosmo, senza preconcetti, senza schemi fissati, continua a capire i pregi e difetti della nostra Italia, volutamente e forzatamente e perennemente di provincia.

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