"Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica" di Paolo Agnoli

“Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica” di Paolo Agnoli

Spunti di riflessione da “Hiroshima e il nostro senso morale. Analisi di una decisione drammatica” di Paolo Agnoli, saggio uscito in questi giorni per i tipi della Guerini e Associati.

Alle 8: 15 del 6 agosto 1945 il bombardiere americano Enola Gay sgancia sulla città di Hiroshima il primo ordigno nucleare della storia. Tre giorni dopo l’operazione verrà ripetuta su Nagasaki. La conta dei morti è spaventosa: centomila ad Hiroshima, sessantamila a Nagasaki. Dietro una delle operazioni di guerra più controverse e dibattute indaga Paolo Agnoli, fisico sperimentale di formazione, interessato ai legami che intercorrono tra scienza -filosofia e d etica. Sulla scia di questa triangolazione prende le mosse il suo libro – inchiesta che tenta di dare risposta al perché si arrivò a costruire l’ordigno nucleare e soprattutto al perché si  decise di utilizzarlo. Il libro ripercorre le tappe che portarono a quel fatidico 6 agosto soffermandosi , dopo un’interessante e non banale riflessione sul legame etica e scienza, sui presupposti scientifici che permisero la costruzione dell’ordigno. Agnoli traccia una breve storia che va dalla scoperta della radioattività a fine Ottocento, ai contributi fondamentali di Niels Bohr, dall’osservazione del fenomeno della reazione  a catena fino al progetto Manhattan che coinvolse nella costruzione del’ordigno nucleare le menti dei più brillanti fisici del tempo, tra cui l’italiano Enrico Fermi. i primi esperimenti sulla radioattività cominciarono proprio in Germania e questo fatto è per Agnoli tra le cause che determinarono un clima di timore negli americani e negli alleati. Cosa sarebbe successo, in sostanza, se alla realizzazione di una bomba A fossero arrivati per primi i tedeschi? Agnoli mostra come questo clima di preoccupazione investisse in maniera gravosa particolarmente gli scienziati che l’autore difende dalle accuse di irresponsabilità e mancanza di etica sostenendo la tesi della particolare gravità della situazione, di per sé unica nella storia dell’uomo e dei conflitti armati. Molti degli scienziati che lavorarono alla bomba erano ebrei fuggiti dalla Germania nazista. Dalle lettere scambiate  dai fisici e raccolte dal Agnoli viene fuori in tutta evidenza la costante attenzione a non divulgare le scoperte ed i passi fatti in avanti sulla via di una possibile applicazione in campo militare del’energia atomica, come pure la speranza che, dati gli elevatissimi costi e l’impiego di ingenti risorse, tale tecnologia risultasse, alla fine dei conti, inattuabile. La paura principale era quella che le scoperte giungessero alle orecchie degli scienziati del Terzo reich effettivamente impegnati in contemporanea con gli scienziati esuli in America alla messa a punto di un’arma nucleare. Sul senso di responsabilità e finanche di colpa attribuito agli americani di aver piegato la scienza ai fini bellici, l’autore mostra come in verità dei progetti di realizzazione di armi nucleari interessassero, in quegli anni, praticamente la quasi totalità delle nazioni coinvolte nel conflitto. Il Giappone aveva stanziato fondi a tal fine; la Germania requisiva uranio in ogni paese conquistato; la Francia aveva avviato le ricerche; l’Inghilterra di Churchill era, infine, la più avanti nel progetto. Agnoli prosegue addentrandosi nel racconto dei vari tentativi di costruzione della bomba parlando del progetto Manhattan e del sito di Los Alamos, dove nacque l’atomica, fino ad arrivare al Trinity test, esperimento dopo il quale si fu certi del possibile impiego di un tale ordigno. Il resto è storia nota: l’ultimatum di Potsdam, l’attacco a Pearl Harbur, la difficile situazione nel Pacifico aggravata dalla tecnica di guerra kamikaze dei giapponesi e, alla fine, la decisione di sganciare la bomba atomica. Per spiegare l’interesse nei confronti di uno sviluppo di tale tecnologia come pure della conseguente costruzione della bomba, Agnoli mette in campo, come si è visto, la costante minaccia della realizzazione dell’atomica per mano tedesca in anticipo sugli americani o sugli inglesi nonché, a suo avviso, un certo orgoglio giudaico di rivalsa degli scienziati espatriati nei confronti dei piani  di distruzione di massa messi in atto dal Fhurer. “Credo, da parte mia – scrive Agnoli – che lavorare a quest’arma apparve a Fermi e a Segrè semplicemnete una questione di vita o di morte […] che la decisione di costruire la bomba fu giustificata e appropriata, se non addirittura obbligata”. Sulle motivazioni dell’utilizzo dell’ordigno nucleare Agnoli batte soprattutto sul Giappone spiegando che una resa del popolo nipponico, orgoglioso e pronto a combattere fino al totale annientamento come dimostrarono i kamikaze, non si sarebbe avuta se non attraverso un atto di forza senza precedenti.  Più che nel tante volte citato motivo del “mostrare i muscoli” all’URSS, è nella situazione particolarmente critica sul fronte nipponico che Agnoli vede il primo motivo di utilizzo dell’atomica. Del resto, spiega Agnoli, l’Urss era già impegnata nello sviluppo di armi atomiche e prima o poi sarebbe riuscita anch’essa nel progetto. La giustificazione dell’utilizzo dell’atomica secondo Agnoli passa tutta nel principio che “Non esiste e mai è esistita una scienza fuori dal mondo” e cioè non legata agli eventi che nel contingente si presentano. E nel caso dell’atomica la situazione era di così straordinaria emergenza e difficoltà che gli stessi scienziati che anni dopo avrebbero deciso si non lavorare più alla costruzione di armi attraverso l’impiego dell’energia nucleare, in quel particolare frangente lo fecero. Sull’idea che sarebbe forse bastata una esplosione lontana da un sito abitativo l’autore sostiene che l’ostinazione giapponese a vincere il conflitto non si sarebbe scalfita. Quello che però appare più traballante nel ragionamento dell’Agnoli sta nel postulato secondo cui l’impiego dell’atomica avrebbe salvato numerose vite di soldati, e nipponici e americani, impegnati al fronte. Agnoli insomma asserisce che le perdite umane sarebbero state più ingenti se si fosse proseguito a combattere per mesi con le armi tradizionali. I conti esatti non si possono di certo fare, resta tuttavia la sensazione che sia stato sottovalutato dall’autore l’effetto a lungo termine dell’atomica. Al di là delle vittime al momento dell’esplosione occorre tener presente tutte le vittime del post- atomica. I bambini nati malformati, i casi esponenziali di tumori e le conseguenti morti, per non parlare dell’inquinamento radioattivo. “Perché torturare e poi ammazzare dieci esseri umani con le baionette dovrebbe essere meno immorale di ucciderne uno solo con le radiazioni atomiche?” si chiede l’Agnoli. A parte l’evidente sproporzione numerica che mi sembra andrebbe almeno ribaltata, ciò che va evidenziato è che, prescindendo dall’ovvia asserzione che un uccisione è pur sempre grave a prescindere dal metodo utilizzato, la guerra con le armi tradizionali confina la morte ed i morti al campo di battaglia e al qui ed ora. La morte provocata dall’atomica è una morte ad ampio raggio temporale che non coinvolge solo gli attori del conflitto nel qui e ora ma, in modo tragico, le future generazioni. Il libro, che risulta preciso e puntuale nella spiegazione anche scientifica dei processi nucleari di fissione e reazione, come pure nell’uso ottimo della documentazione a disposizione, si perde dunque proprio in questo: nel mancato collegamento tra energia nucleare e medicina nonché evidentemente con una parte dell’etica. Tra i capitoli manca infatti uno dedicato agli effetti a lungo termine dell’utilizzo dell’atomica. Il libro resta comunque interessante perché stimola la riflessione e il confronto, oggi forse più lucido, grazie anche alla possibilità di consultare, come ha fatto l’autore, i fascicoli, allora top secret, del governo americano e le lettere che si scambiarono gli scienziati coinvolti nel progetto.