Gli “Ameni inganni” di Giuseppe Culicchia: fisica quantistica, pornografia soft e modellismo aerospaziale

Gli “Ameni inganni” di Giuseppe Culicchia: fisica quantistica, pornografia soft e modellismo aerospaziale

Recensione di “Ameni inganni” (Mondadori, 2011) di Giuseppe Culicchia e riflessioni “cannibali”.

Giuseppe Culicchia è uno scrittore che ho scoperto di recente. Torinese, classe 65, più grande di me oltre un lustro, è stato ed è un autore “feticcio” della mia generazione ed in buona parte di quelle successive, un po’ come Brizzi e la superstar Ammaniti.

Confesso di averlo cominciato a leggere da un anno a questa parte, come per esempio il suo cult Tutti giù per terra, di cui però avevo visto il film.

Mi dicono che come scrittore ha dato prove alquanto discontinue, tuttavia sono rimasto colpito da quest’ultimo suo titolo, Ameni Inganni, per via del plot: un quarantenne che vive in un mondo tutto suo, fatto di riviste soft-porno e modellismo, che poi fa i conti con un grave lutto in famiglia e con la riscoperta di un amore dei tempi del liceo.

Detta così la storia farebbe presagire un romanzo di nuova iniziazione alla vita, e invece ci troviamo alle prese con un racconto fluido ma caustico, fatto di solitudine, ironia, sentimenti compressi, che in un certo solipsismo trovano il modo di essere ossessivi.

Non è però troppo difficile trovarvi un certo mondo maschile in ognuno di noi (noi maschietti, intendo). Il protagonista Alberto girovaga prendendo appuntamenti con agenti immobiliari donne nella speranza di intessere una storia, e alla fine si imbatte in Letizia, sua vecchia fiamma e compagna di classe che gli offre un’amicizia, la quale diventerà occasione di ben altre conseguenze, che il lettore scoprirà.

Giuseppe Culicchia è bravo nel cogliere quelle dinamiche reali di chi vive in una solitudine di una certa realtà giovanile o meno, e le percezioni di chi si mette fuori dal cerchio: l’osservazione alienata degli alienati pendolari, un senso del tempo e dello spazio dilatati, dei rapporti e delle distanze con gli altri. I tempi morti diventano i protagonisti: i lavoratori visti e osservati da un giovane uomo che ha casa di proprietà, il conto in banca lasciato dai suoi, e che pensa di poter vivere della sua ritualità: l’appuntamento con l’edicolante, la certosina catalogazione delle varie playmate, la pignola costruzione di diorami.

È uno stato che chiunque passa nella propria esistenza, a prescindere da tutto e da queste precise occupazioni, e al di là delle condizioni economiche, le quali generano dei solipsismi in parte differenti a seconda del proprio stato.

Il romanzo non è conciliante, si offre a varie determinazioni, e alla fin fine l’unico vero successo per il protagonista è l’incontro con la modella Olga.

Cos’è che mi ha deluso? Mi attendevo un romanzo che raccontasse una sorta di rinascita dei protagonisti.

Cosa non mi ha deluso? I motivi stessi che hanno determinato la mia delusione, ovvero la descrizione dello spazio di coscienza del protagonista, l’illusorietà dell’esistente visto attraverso un uomo non più troppo giovane, il sentire una forte aderenza a ciò che io conosco bene: di quei tempi, di quegli spazi, di quelle osservazioni solitarie; di quelle dinamiche solipsistiche molti di noi ne sanno abbastanza. Come per esempio un’anonima notizia di cronaca su un giornale possa aprire timori personali. Sentire e capire che il confine tra la piena realizzazione vitale e il baratro è sempre molto sottile. La solitudine come amplificatore necessario della percezione, ma anche come ricettacolo di ossessioni. Curioso per me riflettere come ciò abbia molte attinenze con il mestiere dello scrivere. Un libro comunque con un finale aperto a soluzioni diverse.

Nel romanzo c’è appunto un po’ di fisica quantistica, in modo iperaccessibile, e di ufologia, must di tutte le generazioni che vanno dagli anni 80-90 in poi.

Giuseppe Culicchia si inserisce in quel vasto movimento letterario chiamato dei Cannibali, definito tale perché fonde aspetti della cultura pop, avanguardista, e di un certo gusto realistico. Il pulp italiano si afferma assieme all’Avant-pop statunitense. Tuttora è un movimento ricco di diramazioni e di nuove uscite interessanti. Molti di noi sono stati identificati in queste tendenze (sarà un fatto generazionale), e questo ci ha spinto a cercare di conoscere di più e meglio di questi autori, quasi nostri coetanei, alfieri di un’affermazione precoce. In realtà ci sono parecchie differenze con la “nuova onda”, e una di quelle principali è la voglia e la capacità dei nuovi esordi di utilizzare anche colori pastello e più intimistici.

Si ascrivono alla Gioventù Cannibale autori come Enrico Brizzi, Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Isabella Santacroce, Niccolò Ammaniti e ovviamente Giuseppe Culicchia.

Bisogna dire che alcuni  di questi autori non hanno mai espressamente aderito al movimento, anzi – per dirla tutta – a differenza di altre aggregazioni questa definizione è stata appiccicata dall’editoria, dai critici letterari e dai media, probabilmente sulla base di una certa comunanza di vedute degli emergenti della metà degli anni novanta, una certa visione della realtà, per quanto varia e articolata. Sta di fatto che tale etichetta è divenuta un vascello dove far convogliare lettori e operatori del settore interessati a questa narrativa, a un’onda di sensibilità, di idee, di storie e di emozioni. Bisogna dire che Giuseppe Culicchia come altri ha trovato strade diverse. In retrospettiva scopriamo che ciascun autore “cannibale” proprio partendo da quell’humus comune ha sviluppato idee e libri molto divergenti. Un po’ come piccole differenze di angolatura di rette geometriche che nascano da uno stesso punto, determinino nel prosieguo una traiettoria ben specifica rispetto alle altre. Ammaniti è diventato uno scrittore di bestseller, dall’indubbia – a mio avviso – qualità visiva della sua penna; i suoi libri sembrano quasi delle sceneggiature. Enrico Brizzi ha trovato una dimensione nella fantastoria e talvolta anche nella riscoperta del road book, voglio dire dell’idea di scrivere una storia che racconti un viaggio, un cammino fisico, che diviene spunto per intessere storie, avvenimenti, iniziazioni.

Isabella Santacroce è stata piuttosto aderente ai suoi esordi. È un’autrice che avverte abbastanza l’idea trasgressiva che può nascere dalla scrittura. Fondamentalmente si è allontanata poco da certi stilemi.

Altri autori come Tiziano Scarpa e Aldo Nove hanno continuato con successo la loro personale poetica.

Bisogna dire, a onor del vero, che una parte non trascurabile delle opere di tutti questi autori, non ha ottenuto critiche molto positive, e di quelle che contano di più, ovvero le provenienti dai lettori.

Viene da pensare che una parte consistente del loro successo sia generata da alcuni meccanismi che orientano l’opinione pubblica, la realtà dei lettori, i quali a un certo punto, mossi da curiosità, decidono comunque di leggere determinati libri per confrontarsi, nel peggiore dei casi, su quanto è “brutto” un certo romanzo, saggio o altro. È un meccanismo abbastanza perverso, dove alla fine si privilegiano nelle proprie scelte quei libri imposti dall’industria culturale, non riuscendo del tutto a emanciparsi. Cinquanta sfumature di grigio è un libro orrendo o comunque sopravvalutato? Beh, compriamolo per farcene un’idea…

Non si spiega per esempio perché determinati lettori si prodighino in “voti” e recensioni negative, dando però sempre e solo fiducia a certe realtà editoriali o a certe congreghe.

Al lettore dico: se un certo autore/autrice non ti soddisfa, sii “coraggioso”, leggi libri di case editrici differenti. Addentrati nella foresta, scopri nuovi territori. Non ti dico di boicottare questa o quella casa blasonata, ma cerca di essere capace di scelte varie, altrimenti divieni come quel cliente che si lamenta del supermercato dove va ad acquistare le sue vettovaglie, ma non degna di uno sguardo i diversi esercizi che incontra lungo la strada. Ora, le cose stanno cambiando, ma c’è ancora uno zoccolo duro che pretende e desidera che le letture interessanti siano quelle proposte da certi “marchi”, perché compie il grave errore mentale di riconoscere a questi il ruolo quasi unico di proporre ciò che è meglio, ciò che è più interessante. Il lettore inconsciamente ripone una nobiltà di fondo a molti vecchi carrozzoni: se una tal casa editrice mi spiattella questo libro e lo fa tra mille altri, investendoci molti quattrini, vorrà dire che presenta il meglio del meglio o ha i mezzi, la forza e le intenzioni di riconoscerlo (il meglio). Se fa un certo tipo di sforzo è perché una certa cricca di valore pensa che ne valga la pena, e se questo “meglio” non sarà tanto buono vuol dire che ciò che viene da altrove sarà peggio.

No, non è così. Alcuni dei libri più belli e anche editorialmente più accattivanti non sono stati pubblicati o non li vedrete negli scaffali, altri invece si.

Ovviamente ci sono molte opere editate dai big che soddisfano il gusto del lettore, il quale anche in questo, e in Italia particolarmente, non si dimostra sufficientemente maturo, perché magari non sarebbe soddisfatto di meno se si orientasse verso scoperte differenti (con maggior gusto), integrando il libro che viene “sparato” nel megastore con uno meno noto o conosciuto, o di una casa editrice emergente o meno conosciuta.

Eh sì, ci vorrebbe un manifesto del Lettore Cannibale. Ma le cose stanno virando in positivo, sarà merito della crisi che apre nuovi varchi. Dicono sia una legge fissa… Paperbang!