"Il fantasma di Alexander Wolf" di Gajto Gazdanov

“Il fantasma di Alexander Wolf” di Gajto Gazdanov

Recensione di “Il fantasma di Alexander Wolf” di Gajto Gazdanov.

Il miglior cavallo che io abbia mai posseduto era uno stallone dal mantello bianco, mezzosangue, di grosse dimensioni, dal trotto particolarmente ampio e disteso. Era talmente bello che mi veniva fatto di paragonarlo a uno di quei destrieri di cui si parla nell’Apocalisse. Un paragone ben indovinato – per quanto mi riguarda personalmente – visto che proprio in groppa a questo cavallo andai a briglia sciolta incontro alla morte.

Potrebbe iniziare così il romanzo di Gajto Gazdanov, ormai un classico della letteratura russa, pubblicato da Voland nel 2002 e uscito, sempre con questa casa editrice, nel 2014 in una nuova edizione molto elegante e con una nuova veste: in copertina il primissimo piano di un magnifico cavallo bianco. Forse un lipizzano? Destinato a giocare un ruolo di primo piano nella storia del Novecento.

Il brano riportato è l’incipit metaletterario di un racconto nel racconto: Avventura nella steppa. Con tale accorgimento l’autore introduce nell’opera stessa un duplice punto di vista su uno stesso episodio che scopriremo fondamentale per comprendere il dipanarsi degli avvenimenti raccontati. Da un lato c’è il narratore e protagonista, un uomo che si definisce autore dell’unico omicidio da me commesso, dunque si presenta dalla prima pagina come un assassino, e il lettore dovrà identificarsi con un personaggio tormentato dal senso di colpa per buona parte della sua vita. Dall’altro c’è uno scrittore che pubblica un racconto autobiografico ispirato a un evento ben preciso.

L’episodio fondante di questa colpa risale agli anni della guerra civile in Russia: proprio nella steppa russa due soldati nemici si affrontano in uno scontro a fuoco. Sono entrambi a cavallo il narratore monta una magra giumenta morella e Wolf, invece, diventando topos letterario dell’eroe, appare come un cavaliere su un enorme cavallo bianco, immagine di forte richiamo biblico. L’esito di tale confronto sembrerebbe scontato; da un lato un ragazzino di sedici anni, dai lineamenti ordinari, prematuramente uscito dall’adolescenza, dall’altro un vero uomo, biondo, di bell’aspetto. Il bianco stallone incarna l’immagine del destriero fedele che accompagna il paladino. La letteratura presenta in questa veste l’eroe fin dai tempi della cavalleria di Carlo Magno. Si veda la definizione homme cheval sabre in una delle pagine indimenticabili della narrativa francese contemporanea, in cui Claude Simon celebra il cavaliere per eccellenza che ha caratterizzato la storia europea fatta di guerre e conquiste.

La musica è protagonista assoluta del romanzo: spesso suonata al piano e talvolta dalle voci struggenti di violini che fanno da sottofondo a scene salienti, episodi e incontri amorosi. Vengono eseguiti alcuni pezzi di Skrjabin, non sappiamo quali ma sicuramente svolgono la duplice funzione di contestualizzare il momento storico, e strizzare l’occhio alla moda dell’epoca/rievocare l’atmosfera di quegli anni. Questa citazione musicale potrebbe non essere casuale, il compositore ha cercato di applicare/esprimere con successo la sinestesia in musica e ciò si ritrova anche nel testo: il narratore, sorpreso nel sentir cantare la sua donna, definisce la romanza spagnola, una di quelle arie che non possono che provenire da un paese del sud e non si concepiscono lontano dal calore del sole. (…) era una melodia che racchiudeva in sé la luce, come altre contengono la neve e in altre ancora è possibile sentire la notte.

Ma la sinestesia è anche la cifra stilistica del romanzo: il narratore paragona la donna amata a una muta sinfonia di pelle e muscoli e ascoltando un piano lontano, immagina che le note ben distinte siano enormi gocce di suoni che cadono su un vetro.

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