Echi lessicali dei libretti d'opera in due grandi poeti italiani

Echi lessicali dei libretti d’opera in due grandi poeti italiani

Forse non ci facciamo abbastanza caso, ma le parole italiane che il mondo intero conosce e, di fatto, ancora utilizza, sono quelle dei libretti d’opera. Quasi nessuno, all’estero, ha pratica – che so – di Leopardi, o di Pascoli, ma le parole di un Francesco Maria Piave, un Felice Romani (per non parlare del povero Metastasio, caduto sotto la scure dell’ingeneroso, quanto miope, disprezzo del De Sanctis: ma Mozart, tanto per dirne uno, non la pensava certo allo stesso modo…) volano ancora nell’aria dei grandi teatri lirici di mezzo mondo, ogni sera.

Ma pure, una diversa, più sottile sopravvivenza di qualche lacerto lessicale librettistico crediamo si possa scorgerla in almeno un paio di grandi poeti italiani, Leopardi, appunto, e Montale.

Quando nella Cenerentola di Rossini, Angelina all’ultimo numero della partitura recupera l’elaboratissima aria, di struttura decisamente vieux jeu – siamo o non siamo, nel gennaio 1817, in piena Restaurazione? – che Rossini ricicla dal Cessa di più resistere dell’Almaviva (Almavia, sì: e non Barbiere; e non tanto per non dar fastidio alla clacque filo-Paisiello, ma proprio perché è lui, il Conte, che con la sua condizione di nobile, svelata al momento giusto in un a parte all’ufficiale di polizia – situazione che in Beaumarchais manca! -, potrà scampare a qualsiasi sanzione, come pure, a fine opera, tappare la bocca alle recriminazioni del bourgeois Don Bartolo: eroe, dunque, della Restaurazione se altri mai) dell’anno prima a Roma, ascoltandola cantare:

          Nacqui all’affanno e al pianto,

tornano, irresistibili, alla mente almeno due versi del, tanto più filosoficamente denso, Leopardi:

                                                e l’antica natura onnipossente

                                                che mi fece all’affanno.

                                                                     La sera del dì di festa      , vv. 13-14

e, di due anni successivo benché collocato prima, fra le “canzoni”:

                                                 nascemmo al pianto

                                             Ultimo canto di Saffo, 48

E non c’è che da verificare le date: Jacopo Ferretti precede cronologicamente il poeta di Recanati; e se ci venisse da chiederci come avrà fatto, il Leopardi, ad ascoltare – in assenza di tutti i moderni mezzi di circolazione della musica riprodotta – quelle parole  intonate per la prima volta a Roma la sera del 25 gennaio 1817, io credo che il medium ce lo indichi lo stesso poeta: è Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi della cui voce

                                                       Sonavan le quiete

                                                       stanze, e le vie d’intorno,

                                                                                          A Silvia, vv. 7-8,

mentre lavorava a ricamarsi il corredo (la faticosa tela, la chiama il signorino del piano nobile, più memore di una Calipso o Circe omerica al telaio, che sdegnoso di termini realistici, lui che stava per cantare la gallina tornata in su la via), e intanto correva col pensiero dietro al Principe Azzurro insieme a cui ci si sarebbe coricata.

Il che sta per succedere, non si dice alla più remota Cendrillon, ma certo all’Angelina dell’inverno ’17. Né crediamo si faccia difficoltà ad immaginare che alla ragazza, maniaca come sarà stata di novità musicali su cui spiegare il suo perpetuo canto, sia capitato di ascoltare molto presto il rondò di Agelina sfilato, come appunto fa Rosina quando canta quello dell’Inutil Precauzione, dalla “ultima novità” della stagione teatrale: né molto ci vuole, a supporre una svagata, favoleggiante identificazione di Teresa in Angelina.

Quanto a Montale, il suggerimento ce lo dà Contini, La personalità e l’ arte di Montale”, in “Postremi esercizî ed elzeviri”, Einaudi, Torino, 1998, p. 142: il libretto è quello (così facilmente bistrattato da certa critica emunctae naris, a dispetto della sua robusta, incontestabile vitalità scenica) di Lugi Illica:

                                           io, gallonato e muto,

                                           aprivo e richiudevo una portiera

                                                           Andrea Chénier , Atto III

che trova infallibilmente eco in Montale,

                                            …un servo gallonato trascinava

                                            due sciacalli al guinzaglio

                                                La speranza di pure rivederti …, Le occasioni, II         

Una prova che il vistoso elemento lessicale sia transitato dal testo della (per altro frequentatissima, tanto più a inizio Novecento) romanza di Illica-Giordano nella tavolozza compositiva del poeta, crediamo possa risiedere nel fatto che, quando Montale racconta, per così dire “in prosa”, l’episodio (Contini, op. cit., p. 143), il servo non ha nessuna precisa connotazione di vestito.

Né va dimenticato che l’aria di Giordano è, appunto, per baritono: cioè il timbro vocale di Montale (Contini, op. cit., p. 137: ma ci deve essere una confusione; Contini dice “dotato di una voce di basso”, però subito dopo, parlando dell’aria della “Calunnia” – che è appunto per voce di basso –, dice invece “spostando l’impostazione da quella di basso a quella di baritono”: il che può avere senso solo se Montale aveva voce di baritono, o non ci sarebbe stato nessun bisogno di “spostare l’impostazione” dell’originale rossiniano).

Infine, nel testo di Illica, il personaggio era, nella condizione che sta rievocando, esattamente lo stesso, in senso esterno, del domestico accompagnatore degli esotici animali al guinzaglio: un “servo”; mentre internamente era innamorato senza nessuna speranza (“la speranza di pure rivederti” di cui Montale soffre la perdita) di quella Maddalena di Coigny, che ora il gran rimescolio della Révolution ha invece messo alla sua libidinosa mercé.

Potremmo dunque pensare – è a questa conclusione, che incliniamo – a un qualche effetto “strascico”: nel corso di una (più d’una?) frequentazione performativa in prima persona, il termine si sarà incagliato nella memoria del poeta, fino a gemmare a diverso livello di “canto”.