"C’è posto tra gli indiani" di Alessio Dimartino

“C’è posto tra gli indiani” di Alessio Dimartino

Recensione di “C’è posto tra gli indiani” di Alessio Dimartino (Perrone, 2014).

Certo, lo so, bisogna raccapezzarcisi, in questa storia
qua. Anche se poi, in fondo, questa storia qua è una storia
piuttosto normale. Anzi, più che normale, normalissima.
Questa storia qua, infatti, narra di uomo che forse continua
a vivere o forse inizia a morire. Anzi, forse continua a vivere
o forse muore, in quanto ha iniziato a morire già da parecchio
tempo. Quindi, forse, questa storia qua narra di uomo
che forse continua a iniziare a morire o forse muore e
oplà.

Marcello viene svegliato dalla prepotenza del campanello. I postumi della sera prima lo tengono inchiodato al divano in preda al torpore fisico e mentale della peggior specie: troppa droga, troppo alcol. Ma il campanello continua a suonare, pare. Niente da fare: è costretto ad aprire la porta. Un uomo mai visto prima, la cui somiglianza impressionante con Michael Caine salta subito agli occhi ancora accartocciati di Marcello, gli consegna un cocker fulvo con problemi di inappetenza. Ancora frastornato da quel brusco risveglio, il protagonista non fa in tempo a chiedere all’uomo chi sia e chi lo abbia mandato dritto a casa sua anziché allo studio veterinario in cui lavora. Michael Caine è andato via e gli ha lasciato Bobo, il cane troppo in carne per essere inappetente che gli ha rallentato la tabella di marcia. Eh sì, perché una tabella di marcia Marcello ce l’ha: masturbarsi ferocemente su una foto della sua ex e suicidarsi. Ma con l’arrivo del cane il momento della fine si allontana: Marcello inizia a passeggiare con Bobo per le strade della periferia di Roma, in una marcia lunga una notte e cadenzata da incontri, da parentesi che si aprono e che, raramente, si chiudono. Via Prenestina, il Pigneto, San Lorenzo, Via Appia… sono scenari di una città molto lontana dalla Roma che ci piace mostrare: scenari sporchi, normali, senza nulla di eroico. Queste sono le strade in cui Marcello sembra attraversare il tempo di tutta la sua vita: dall’inizio a quella fine verso la quale incede zoppicando, in un’alternanza di acidi reflussi di passato e di squallore presente.

E C’è posto tra gli indiani è proprio un romanzo sul tempo. Il costante senso di fine – la fine dell’amore, della droga, della voglia, e ovviamente della vita – che permea l’intero romanzo serve a scandire la lunga notte in cui la voce di Marcello s’incrocia a quella di un’altra persona, anche lei alle prese con il suo tempo e le sue fini. Una storia qualsiasi forse: quella di chi si è trovato a dover compiere delle scelte per crescere, di chi è fuggito dalla realtà, di chi a volte non ha potuto evitare gli incidenti del destino,come la bizzarra presenza di Bobo. Marcello si ritrova a fare i conti con i fantasmi del passato in un percorso labirintico fatto di incontri e silenzi, attraverso un costante dialogo con Roma che, paradossalmente, sembra offrirgli sempre lo scenario e l’interlocutore adatto.

Quello di Alessio Dimartino è un romanzo difficile da digerire, impastato ad arte per restare appeso tra la gola e lo stomaco. Questo perché gli occhi di Marcello non si fermano mai su qualcosa che, potendo scegliere, decideremmo di osservare: pezzi di kebab che cadono dalla bocca della propria ex ridente, un’auto in fiamme, uno zaino nero, un gatto destinato a morire dissanguato, McDonald, dei denti marci… e ognuna di queste immagini brutte o insignificanti conduce a situazioni assurde ma non impossibili, a ricordi dolorosi e condivisibili. Marcello, Bobo e gli altri mettono il lettore davanti al fatto che la vita non va come vorresti, che le cose prendono pieghe inaspettate e inevitabili, che le scelte che compi portano sempre da qualche parte, che l’avanzata del tempo non si può fermare. È un romanzo difficile da digerire perché Dimartino parla dell’ineluttabilità della vita – caso o destino che sia – e di quei momenti ingiustificatamente brevi che la segnano per sempre: come accade in una partita di tennis o nella scena della sparatoria in un film western.

È per questo che mi fanno impazzire, i film western. Ci
si gioca tutto in cinque minuti. Imperatori contro vassalli,
vassalli contro valvassori, valvassori contro popolani, popolani
contro servi della gleba. Imperatori, vassalli, valvassori,
popolani e servi della gleba tutti mischiati assieme, un
grande frullato imperatore della gleba. Basta avere una pistola.
E una pistola lì ce l’hanno tutti. Non sarà un esempio
di carità sociale, ma è un esempio di democrazia. Il
duello western è la vera democrazia.

Ma la vita vera, nonostante quei cinque minuti in cui ci si gioca tutto, è tutt’altro che democratica. I personaggi di Dimartino non sono pistoleri, non godono della svolta che può seguire la famosa inquadratura Leone: sono personaggi qualsiasi, un po’ ai margini ma senza il senso di rivalsa disperato di chi è troppo ai margini. Persone a metà tra la vita e la morte, tra il senno e la follia, tra il normale e l’assurdo: per loro, al massimo, c’è posto tra gli indiani.

È un libro che andrebbe letto per la sua schiettezza, per il modo in cui costringe il lettore a posare lo sguardo dove non vorrebbe o dove non avrebbe mai creduto avesse senso posarlo. Senza retorica o giri di parole Dimartino riporta sulla pagina buona parte delle ossessioni contemporanee, un po’ di disillusione amareggiata – tipica di chi è tutt’altro che cinico – e un amore conflittuale per la propria città mostrando così l’altro lato di Roma e delle storie di ogni lettore che, metaforicamente e non, si ritrova con il libro in mano a seguire le tappe di Marcello e Bobo fino alla fine; una fine ben diversa da quella che si potrebbe pensare.

Buona passeggiata e buona lettura.

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