Bellezza e dolcezza nel "Tempo dorato" di Tommaso Romano

Bellezza e dolcezza nel “Tempo dorato” di Tommaso Romano

Spunti di riflessione su “Tempo dorato” di Tommaso Romano.

In “raccontare è raccontarsi” – sottotitolo del “Tempo dorato”- sembra di leggere Márquez: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.

E vi è presente anche lo spirito che anima e orienta la Recherche proustiana. Tuttavia, la genesi di questo “aureo libretto” di Tommaso Romano, non è solo “l’epifania della memoria”, il tuffo nel “passato remoto” su cui si radica il tempo presente, né “una mera nostalgia” – come lo stesso autore dichiara in premessa – ma è, anche e soprattutto, l’amarezza per il degrado e la decadenza della Palermo di oggi, non più “felicissima” già a partire dagli anni sessanta, quando, in pieno miracolo economico, venne stravolta la sua fisionomia architettonica a seguito del sacco edilizio ad opera dei nuovi barbari, degli uomini politici e mafiosi. È, dunque, dall’amarezza e dal disgusto che nasce questo libro, e dal conseguente bisogno di riscoprire “la bellezza del mondo e del cosmo” (implicitamente, della stessa città di Palermo), di “dolcificare un poco l’esistenza perigliosa” con il “tempo dorato” della fanciullezza, che Romano data fino al 1968 e cioè fino all’età di tredici anni. Il centro di questo diario, attraversato e permeato dall’idea di bellezza e dal rimpianto della sua dissipazione, si può cogliere nelle pagine dedicate al “dolcetto”, decantato perfino dalla Scuola Salernitana per le sue qualità lenitive e purificatrici oltre che nutritive. Si rileva, qui, quel felice connubio tra il bello e il dolce che accompagnava il nostro autore nelle “salutistiche camminate con papà” al Giardino Inglese e lungo la via Libertà, nelle passeggiate con la famiglia lungo l’ “asse viario” percepito da lui “come teatro del gusto”, comprendente “il Politeama, le vie Ruggiero Settimo, Cavour, Maqueda, piazza Massimo”: un grande “teatro” all’aperto, in cui egli poteva godere dello splendore scenografico delle “villette liberty”, degli eleganti negozi e dei caffè storici (“oggi mestamente tutti estinti”) e, al tempo stesso, del sapore di “dolci, gelati e spuntini salati” consumati in quei caffè e rinomate pasticcerie dall’intera famiglia nelle soste ristoratrici. Questa connessione del bello e del dolce nell’alveo della memoria che li custodisce, rimanda al legame determinante tra bellezza e temporalità nell’opera di Proust, dove la bellezza cessa di essere un’idea assoluta, un valore eterno e immutabile, un paradiso perduto e si manifesta come possibilità, come stendhaliana “promessa di felicità”, perché essa nutre e riempie di dolcezza la vita, la quale attraverso il racconto si racconta e vive della propria memoria, del “tempo ritrovato”. La vita raccontata è una vita più ricca e selezionata, si veste di “fantasie e papille gustative” ritrovando tutto il sapore del “tempo dorato”: quella bellezza e dolcezza che la rendono mitica e favolosa e che, come sostiene Márquez, non è quella vissuta, ma quella che accade di nuovo nel racconto, magica e realistica, perché impreziosita del suo passato.

La bellezza, coltivata da Tommaso Romano fin da fanciullo, è da lui percepita con i sensi e con l’anima, e cioè sia come categoria autonoma, come espressione e dato temporale e concreto, sia come qualità della vita, come qualcosa di sacro che va riscoperto, custodito e praticato per essere, per sentire “da poeta”, come egli sente e scrive. È in nome della bellezza, di questo bene trascurato, deturpato, saccheggiato, dissipato che “Palermo dovrebbe compiere fino in fondo la propria penitente redenzione” cancellando l’opinione di Sciascia, che la riteneva irredimibile. Il riscatto morale della città può avvenire solo attraverso la corretta e onesta gestione della cosa pubblica da parte dei governanti. Esso è affidato, dunque, alla politica che, in quanto amministrazione del bene pubblico, deve puntare sulla qualità della vita, e perciò non può distaccarsi da quell’ideale di bellezza che solo è in grado di risvegliare le coscienze “vivificando il pensiero”, opponendo la dolcezza al disfacimento, allo scempio, alla barbarie “del mondo odierno abitato dallo smarrimento – anche spirituale – del cupio dissolvi”. Accanto alla bellezza, la politica è una passione, un sentimento, una calamita che attrae Romano e che gli è trasmessa dal padre all’età di appena dodici anni. Egli la vive, già da fanciullo e innanzitutto, proprio come un bene comune e un grande servizio da rendere alla comunità, al di là dell’aderenza e dell’appartenenza alla corrente, al partito politico da lui scelto. E si attiva imitando “i protagonisti dei comizi e delle tribune politiche”, improvvisando “comizietti rivolti a sorella, cani e vicini”, “ordendo elezioni in classe”, stampando volantini, formando un gruppo in erba, con tre aderenti dodicenni. L’ironia e il grande senso dell’humor con cui egli riporta e descrive tanto fervore politico non celano l’impegno, la serietà, la fede, l’interesse – già allora dimostrati, fino al punto di “liquidare gli averi donati da nonna zii e genitori in giornalini ciclostilati, manifestini, locandine” – verso quella che per lui è sempre stata una vera e propria arte di governare la società, e che negli anni a venire avrebbe praticato per circa un ventennio “fra la Provincia e la città”.

Questo libro non è solo di memorie. Il presente vi irrompe generando inevitabili confronti e riflessioni e portandovi quell’amarezza, che è poi un modo diverso di chiamare la nostalgia. La quale non è, qui, il mero sentimento del tempo perduto ma, piuttosto, il senso, l’avvertimento di “una perdita, anzitutto valoriale”, cui si accompagna una sottesa denuncia. La perdita è la crisi di una società che ha dissipato i suoi educatori: i “maestri” e i “padri”, il loro “magistero” e lo stesso “principio d’autorità”, fondamento necessario alla formazione delle buone coscienze condannando le nuove generazioni alla dipendenza e ai condizionamenti tipici “dei nostri tempi informatizzati e globalizzati, progressivi e libertari”. Al rimpianto per una Palermo degradata fisicamente, moralmente e spiritualmente, depauperata delle sue risorse artistiche e culturali, spogliata della sua tradizione e del suo folklore, dei “bagni della salute e dello iodio“, dei “celeberrimi ristoranti sulle palafitte”, dei suoi cinematografi e negozi storici, si aggiunge quell’autunno della scuola che, nel fallimento delle sue molte riforme, ha perso foglie e radici, e cioè quei principi e valori fondanti dello spirito, promotori della cultura, che in passato ne hanno garantito lo sviluppo e la crescita e che oggi sembrano datati e sepolti sotto la coltre di nuovi codici comportamentali, dettati e promossi dalla nostra civiltà edonistica, tecnologica, mediatica, con i suoi feticci e consumi di massa, fino al punto che la scuola sembra avviarsi, inevitabilmente e paradossalmente, verso un’involuzione culturale. Al nostro Tommaso Romano mai è venuto meno “il valore dell’esistenza”, che la scuola della sua formazione, quella della “sperimentazione rivoluzionaria” del metodo globale, gli “consegnò come indelebile lascito”. Per un poeta come lui, frequentatore e organizzatore di eventi culturali, l’amarezza del tempo della crisi non può mutarsi in semplice nostalgia, non può defluire, sciogliersi ed esaurirsi nel ricordo del “tempo dorato”. Anzi, più vivo si fa il tempo presente, in queste pagine, dove egli torna a bagnarsi, nonostante Eraclito, nell’ “impetuoso fiume della fanciullezza”. Non ci sono capitoli in questo libro, ma quadri, titoli della memoria volontaria che scorre come un film facendosi racconto. Non c’è alcuna cesura tra passato e presente, tra il “raccontarsi” e il “raccontare” perché il tempo della “meraviglia” e quello del disincanto, o del malessere sociale, sono compresenti, reciprocamente inclusi, compresi l’uno nell’altro. Non ci sono sensazioni, luoghi, oggetti che generano le intermittenze del cuore; non c’è la memoria involontaria che fa emergere dalla madeleine tutto un passato. Non ci sono epifanie che svelano il lato nascosto delle cose; che lasciano affiorare all’improvviso esperienze sepolte nella memoria. Ma quei personaggi ritratti in coda a questo libro (la zia Maria, don Peppinello, i Flandina, Andrea Ingrassia (il barone bidello), non sono il frutto di un volontario ricordo. È così precisa la descrizione dei loro tratti distintivi, del loro carattere, delle loro particolarità, dell’aspetto, dell’abbigliamento da far pensare che siano stati loro a presentarsi, a balzare fuori, a venire incontro all’autore, pirandellianamente, per essere raccontati e raccontarsi, per tornare a vivere nella loro epifania. Essi costituiscono una vera e propria galleria della memoria e sembrano proiettarsi realisticamente fuori della pagina, come dei trompe-l’œil. E così sembrano mostrarsi anche al lettore, il quale non dimenticherà facilmente di averli visitati, di essere stato, a sua volta, visitato.

L’ultima stazione di questo viaggio nel “tempo dorato” è una serie d’immagini, un carico di epifanie portate dal treno, mitico mezzo di locomozione che si muove sui binari della memoria lasciando avanzare in direzione opposta, e dunque incontro al suo passeggero, gli ultimi “lacerti” di questo sogno. E questo treno, che si muove con lo sguardo del nostro sognatore, dice di uomini e cose; è “Papa Giovanni che benedice da un finestrino”, la velocità disegnata dai futuristi, l’occasione d’incontri, di conversazioni, di letture; è il lavoro, lo studio, ed è la “buona vita” degli emigranti in viaggio verso un futuro di speranza. E in queste rivelazioni trova posto il pensiero di Romano, esse sono per lui occasione di riflessione. Il passato, lo abbiamo già detto, non è mai separato dal presente; il “tempo dorato”, infatti, non è un rifugio, una fuga dalla realtà, ma un luogo privilegiato dove pensare, dove volgere lo sguardo alla “contemplazione pensante”, per usare la bella espressione di Florenskij, citato, peraltro, dal nostro autore. L’inevitabile comparazione tra la stagione felice e l’amara realtà attuale aiuta a riflettere sul destino dell’uomo e del mondo e sulle possibilità di cambiamento, sulla “capacità di rinnovamento” di cui il treno è, qui, “il simbolo più svettante di ciò che coniuga la tradizione alla libertà dell’innovazione”. Insomma, Romano pensa anche quando sogna. E il sogno è forza rigeneratrice e vivificatrice del pensiero, e perciò egli crede “il risveglio sempre possibile per ognuno”, a partire da quella capacità di stupirsi, che, fin da fanciullo, lo ha sempre accompagnato insieme con l’idea di una politica come “bene pubblico” da perseguire attraverso la bellezza, la sola che possa orientare il nostro cammino e alimentare la speranza nella “promessa di felicità”.